I temi della Critica del Giudizio – il particolare come un fatto della natura o della storia; il giudizio come facoltà della mente umana; la socievolezza dell’uomo come condizione ideale per il funzionamento di questa facoltà – sono tutti di eminente significato politico, cioè rilevanti per un politico. Gli interessi per questioni costituzionali e istituzionali in senso stretto occuparono gli ultimi anni della sua vita, dopo la pubblicazione della Critica del giudizio, cioè il 1790. Infatti, dopo la Rivoluzione francese (1789), il suo interesse si orientò verso quello che oggi noi chiameremmo Diritto Costituzionale: la Costituzione di uno Stato, il modo in cui dovrebbe essere organizzato costituzionalmente il corpo politico, il concetto di governo repubblicano o costituzionale, la questione delle relazioni internazionali, o la fondazione di una comunità politica, comprese le implicazioni giuridiche al riguardo. Troviamo così Per la pace perpetua, lo straordinario scritto che introdusse il diritto di visitare paesi stranieri, il diritto di ospitalità e di temporaneo soggiorno, in un’ottica non più limitata a livello nazionale ma cosmopolita. Senza questi argomenti sarebbe stato piuttosto improbabile una Metafisica dei costumi, con una dottrina sul diritto.
In sostanza Kant afferma che un uomo malvagio può essere un buon cittadino in uno stato buono. L’imperativo morale dice che bisogna sempre comportarsi in modo che la massima del proprio agire possa diventare una legge universale. Quindi, si può vedere una menzogna particolare, ma in nessuno modo posso accettare una massima che mi comandi a mentire. Oppure, posso desiderare di rubare, ma non posso volere che il furto diventi una legge universale. L’uomo malvagio, per Kant, è colui che fa del male eccezionalmente per sé, e non colui che vuole il male. Nell’etica kantiana vi sono, simmetricamente al male e al bene, due espressioni che si contrappongono, segreto e pubblicità. La condotta di un uomo malvagio è segreta perché si pone contro l’interesse pubblico della gente. Pubblicità, invece, è un concetto chiave del pensiero politico kantiano. A differenza dell’ambito morale, nel quale la dimensione è privata e speculativa, o meditativa, dove il giudizio è inteso come esplicazione del proprio pensiero, in politica ogni cosa dipende da una condotta pubblica, perché denota la convinzione che i pensieri malvagi, per definizione, sono segreti. La condotta umana in uno spazio politico, collettivo e comunitario è sottoposta all’avallo dell’opinione pubblica, ed è di natura intersoggettiva o intrapersonale.
In Kant vi sono tre concezioni dal quale possiamo considerare le faccende umane: il genere umano e il suo progresso; l’uomo che trova il suo fine in sé, un fine morale che è la libertà; quella riguardante la pluralità umana, cioè la socievolezza. Nell’ottica kantiana il filosofo non è quello della caverna platonica o colui che vola nel cielo parmenideo, ma un chiarificatore di esperienze comuni a tutti. È un uomo come gli altri, uno che decide di vivere tra gli uomini e non in una cerchia ristretta e isolata. Inoltre, valutare la vita in rapporto al piacere o al dispiacere è una capacità attribuibile ad ogni uomo dotato di intelletto. Il giudizio kantiano si muove tra queste due prospettive che sono le facce della stessa medaglia, quella dell’Eguaglianza. Il filosofare, il pensare della ragione, che trascende i limiti di ciò che può essere conosciuto, è per Kant un bisogno universale dell’uomo. Con l’abbandono della gerarchia platonica, dove i filosofi venivano situati all’apice come sovrani, in Kant si dissolve la tensione tra politica e filosofia.
Il modo socratico di fare filosofia era importante per Kant, almeno per due ragioni. La prima riguarda il principio di non contraddizione, che per Socrate aveva valore sia logico – non dire o pensare cose insensate – che etico – meglio essere in disaccordo con tutti che con sé stessi, contraddicendosi. In base all’altra ragione, Socrate non era membro di nessuna setta e non aveva fondato nessuna accademia. Kant lo considerava come il prototipo del filosofo, perché il suo filosofare non era questione per pochi, un fatto elitario. Conversava con tutti quelli che incontrava per le piazze ed era del tutto vulnerabile, cioè pronto ad ascoltare le obiezioni degli altri e a rendere conto delle sue idee.
Si prenda, ora, il termine di “Critica”, che intitola i volumi della famosa trilogia kantiana: consiste nel depurare l’oggetto della propria indagine dai pregiudizi e da ogni forma di autorità, e cercare di scoprire fonti, potenzialità e limiti della stesso. “Critica” si oppone a “dottrina”, e si contrappone ad ogni metafisica dogmatica e ad ogni scetticismo.
Se consideriamo la relazione tra politica e filosofia, dissolvendone ogni contrasto, risulta chiaro che l’arte del pensiero critico presenta forti implicazioni politiche. Essa ha avuto, come nel caso della condanna a morte di Socrate, conseguenze drammatiche. Infatti, a differenza del pensiero dogmatico, che può diffondere nuove e pericolose credenze, e del pensiero speculativo, che difficilmente preoccupa qualcuno, il pensiero critico è, per sua natura, antiautoritario, perché fa cadere le fondamenta delle più diffuse verità. L’epoca dell’Illuminismo, in cui è vissuto Kant, è l’epoca dell’uso pubblico della ragione. Di conseguenza, la più importante libertà politica per Kant era non la libertà del filosofare, ma la libertà del parlare, del pensare e del giudicare pubblicamente. La libertà di pubblicare.
Questa libertà può essere confusa con quella capacità che un individuo ha nell’esternare la propria opinione per mettersi in condizione di persuadere gli altri. Kant, invece, propone un’idea al riguardo molto differente. Egli riteneva che la vera facoltà del pensare dipende dal suo uso pubblico. Senza un’indagine libera e pubblica da parte degli altri, così come l’agire del politico, non è possibile né il pensiero né ogni altra opinione, come se la ragione non è fatta per isolarsi ma per entrare in comunità. Jaspers affermava, come una sorta di parafrasi al pensiero politico kantiano: “la verità è ciò che posso comunicare”. Prima delle critiche kantiane, le verità filosofiche pretendevano una validità universale. Con Kant, invece, le scienze umane devono mirare a una comunicabilità universale. “È infatti – scriveva Kant – vocazione naturale degli uomini comunicare gli uni con gli altri nelle materie che riguardano l’umanità in generale.”