Siamo al tramonto del V secolo avanti Cristo, tra 407 e 406, quando Euripide compone Le Baccanti. L’opera fa parte di una trilogia, l’ultima di uno dei più grandi tragediografi greci e più in generale del mondo antico.
Delle altre due tragedie, Ifigenia in Aulide e Alcmeone a Corinto, solo la prima è pervenuta a noi: trilogia macedone si suole chiamare il terzetto di tragedie, perchè il suo autore si trovava all’epoca della composizione della stessa proprio in Macedonia, avendo accettato l’invito del re Archelao.
Quando parliamo de Le Baccanti, parliamo di una delle maggiori tragedie del mondo greco: vuoi per il successo che ebbe presso il pubblico – la rappresentazione avvenne postuma ad opera del figlio del poeta, Euripide il Giovane, nel 403 a.C., e l’intera trilogia fruttò una vittoria alle Grandi Dionisie di Atene – vuoi per il vivace dibattito critico che l’interpretazione della tragedia ha suscitato nel corso del tempo.
Baccanti (o anche Menadi) è l’appellativo con cui si è soliti indicare le donne invasate dal dio Dioniso – poi Bacco presso i Romani. Il dramma è ambientato a Tebe, dove il grande, vero protagonista dell’opera tragica – Dioniso appunto – è giunto sotto sembianze umane per punire le sorelle della madre Semele, ree di scetticismo sulla sua discendenza celeste. Il dio ha sconvolto le loro menti, invasandole e rendendole ferventi partecipanti dei culti orgiastici in suo onore, insieme alle altre donne tebane. Subentra a questo punto l’altro grande personaggio della scena, Penteo, re della città e cugino di fatto di Dioniso (in quanto figlio di Agave, una delle sorelle di Semele): il re, deciso più che mai a reprimere gli eccessi del culto, fa addirittura arrestare Dioniso, che però riesce facilmente ad evadere dal carcere e pianifica la punizione. Il dio greco dell’invasamento fa anche del re di Tebe una sua vittima: lo induce a travestirsi da donna e a recarsi in montagna per farsi spettatore dei riti compiuti dalle donne tebane. Di fatto, il re è però già una baccante a tutti gli effetti. Le donne invasate, nel loro delirio orgiastico, vedono in lui l’immagine di un leone e lo fanno a pezzi: la madre stessa, Agave, ne infigge la testa su un tirso e mostra – compiaciuta e invasata più che mai – la preda alle compagne. Solo in un secondo momento, scomparso l’invasamento, la donna riconosce la testa mozza del figlio e si rende consapevole dell’orrore commesso, comprendendo la macchinazione del dio. Nel finale, di dubbia autenticità, Dioniso condanna Agave e le sorelle all’esilio.
La critica si è letteralmente divisa nell’interpretazione di questa grande tragedia: i due poli si sono fronteggiati nell’asserzione da una parte, e nella negazione dell’altra, di una “conversione religiosa” di Euripide, che nella sue precedenti opere si era fatto portatore e promotore di uno spirito nettamente più apollineo che dionisiaco. Conversione suggestiva negli ultimi anni di vita del poeta e tragediografo greco? Oppure critica feroce agli eccessi del culto a Dioniso? O, ancora, metafora del disorientamento che regnava in quegli anni, quando numerose sconfitte militari sembravano minacciare concretamente la salda impalcatura dei tradizionali valori religiosi?
Ad oggi una risposta univoca, come accade la stragrande maggioranza delle volte, appare impossibile da dare. Ricordiamo, inoltre, che al tempo della composizione de Le Baccanti Euripide si trovava in Macedonia, regione della Grecia fortemente influenzata dai riti folclorici di stampo dionisiaco, e che questi ultimi rappresentano comunque la genesi del tragico, che vive del conflitto insanabile tra spirito razionale e irrazionale.
Certamente la grandezza di un’opera nasce anche (o forse soprattutto) dalla molteplicità di domande e dubbi che solleva e dall’interpretazione del pensiero del suo autore.