Il grande poema di Lucrezio, De rerum natura, è l’unica opera che ci è pervenuta dell’autore latino. Probabilmente non compiuta o comunque mancante di una definitiva revisione, l’opera è il tentativo di descrivere le origini dell’universo. Conservata integralmente da due codici del IX secolo, denominati O e Q, fu riportata alla luce nel 1418 dall’umanista Poggio Bracciolini.
Chi ha nozioni elementari di filosofia antica avrà notato che il titolo, in latino, rimanda a filosofi arcaici come Esiodo o Empedocle, quest’ultimo autore del celebre poema Sulla natura, vissuti nel V secolo a.C. In realtà Lucrezio s’incarica del ruolo, non certo comodo, di divulgare la filosofia di Epicuro, grande filosofo antico e fondatore della celebre scuola dell’Epicureismo, ma a differenza degli intellettuali del suo tempo sceglie una strada radicalmente diversa, cioè quella del poema epico-didascalico, dai tratti particolarmente descrittivi o elogiativi nel trattare qualcosa che di per sé ispira meraviglia. Lo stesso Epicuro viene presentato da Lucrezio come una sorta di eroe, colui che ha saputo liberare l’umanità dagli orrori ancestrali e dalla paura dell’indefinibile. La forma più congeniale alla sua espressività non sarà né il compendio di filosofia, né il trattato scientifico, ma la poesia solenne.
Composta in esametri, i sei libri dell’opera sono articolati in tre gruppi da due: la prima coppia parla di Fisica, la seconda di Psicologia e Antropologia, la terza ed ultima è di carattere cosmologico.
L’opera si apre con l’inno a Venere, personificazione della forza generatrice della Natura, poi si passa agli elementi fondamentali, gli Atomi, particelle infinitamente piccole e indistruttibili che si muovono nel vuoto e che generano le aggregazioni dei corpi e dei mondi; la nascita e la morte, per Epicuro così come per Lucrezio, sono il risultato del continuo processo di aggregazione e disgregazione. Il percorso degli Atomi è rettilineo ma avviene un’inclinazione definita clinamen, cioè una deviazione che consente, per un solo istante, il volere e la libertà dell’essere umano. Anche il Corpo e l’Anima sono fatti di Atomi; il Paradiso è una favola, l’Anima è destinata a morire assieme al Corpo.
L’infinito movimento delle particelle genera i Simulacra, cioè l’ombra o la copia delle cose, proiezioni che colpiscono i nostri organi percettivi come una patina sottilissima, invisibile, che si posa sui nostri occhi. Ed è così che per Epicuro nasce la Conoscenza, simulacro anch’essa in un mondo di simulacri, un insieme d’immagini speculari di un infinito gioco di specchi. Un mondo che, nonostante tutto, resta mortale, destinato a concludersi un giorno in modo del tutto accidentale, così come esso è nato.
Lucrezio ha cercato, nella sua titanica descrizione, di spiegare ogni aspetto dell’Uomo e del Cosmo, soprattutto di convincere il lettore della validità della dottrina epicurea. Con una scrittura tanto aggressiva e violenta quanto emozionale e vertiginosa, l’opera si avvale anche di un certo realismo nel creare caricature e invettive, nell’aggredire e scuotere l’Uomo dalle sue follie: è la Natura stessa, ad un tratto, ad essere indignata nei confronti del genere umano, così incredibilmente attaccato alla vita, lanciandosi in una dissacrante requisitoria contro il suo modo di vivere, segnato dall’angoscia e dal dolore, mettendo in ridicolo anche la passione amorosa, mostrandone tutte le contraddizioni.
Molto affascinanti restano, però, i passaggi in cui Lucrezio invita il lettore a riflettere su quanto sia crudele ed ingiusta la Religione (Religio). È proprio la Religio ad opprimere gli uomini, a schiacciarli sotto il suo peso, turbando la loro gioia con la paura. Se gli uomini sapessero che dopo la Morte non c’è nulla, se si convincessero dell’inesistenza di una pena eterna profetizzata dai sacerdoti, smetterebbero di essere succubi di ogni forma di superstizione. Secondo Epicuro, l’Uomo deve superare la paura della Morte, e attraverso la conoscenza delle Leggi che governano l’Universo potrà ambire a questa liberazione.
Solo così potremmo, al riparo sulla terraferma, osservare distaccati il mare in tempesta.