Quando si parla di De re rustica nella storia della letteratura latina si rimane forse, a primo impatto, un po’ spiazzati. Con questo titolo sono infatti tramandati diversi trattati: quello di Marco Porcio Catone, più comunemente noto come De agri cultura; quello di Lucio Columella, in dodici libri, il più poderoso trattato di agronomia dell’intera antichità, che affronta non solo il tema dell’agricoltura, ma anche quello ben più vasto delle scienze agrarie; infine il trattato di Marco Terenzio Varrone.
È a quest’ultimo che oggi volgiamo la nostra attenzione.
Trattato scritto in forma di dialogo intorno al 37 a. C., nel medesimo anno in cui Virgilio si accingeva a scrivere le Georgiche – le quali risentono ampiamente dell’influenza dell’opera di Varrone – il De re rustica si compone di tre libri, di cui il primo tratta la coltivazione della terra, il secondo l’allevamento del bestiame e il terzo l’allevamento degli animali da cortile, con l’aggiunta di selvaggina, uccelli, api e pesci.
Di certo non ci meraviglia che gli antichi Romani abbiano dedicato tanta parte del loro prezioso tempo e della loro vena artistica e letteraria alla trattazione di un tema come questo, avvezzi com’erano a fare di ogni branca del sapere umano una scienza. E tale era considerata l’agronomia, al pari della retorica, della medicina o dell’architettura.
Varrone afferma nell’introduzione dell’opera che l’esposizione si avvale, fondamentalmente, di tre contributi: osservazione dirette, risultato di letture personali e insegnamento dei tecnici. Il tutto costruisce l’impalcatura di un’opera che avrebbe goduto di ampia fortuna, non solo negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione, ma anche nei secoli futuri. Un’opera che, seppur modellata su una serie di precedenti letterari – in primis opere in lingua greca di Teofrasto e Aristotele e, naturalmente, il De agri cultura di Catone – appare animata soprattutto dall’esperienza diretta e dall’animus del suo autore.
Marco Terenzio Varrone, da buon conservatore, sottolinea anche il valore etico della campagna, da difendere contro la corruzione e il degrado, caratteri tipici della vita urbana. Eppure, nello stesso tempo, c’è tanto pragmatismo romano: l’autore del De re rustica non guarda al mondo agreste con spirito lirico e malinconico, ma con l’occhio dell’acuto latifondista agrario che dispensa consigli su come organizzare una grande tenuta, come accrescerne i profitti e pianificarne lo sviluppo. Il criterio dell’utilitas, già presente in Catone, trova qui la sua consacrazione: perfino nell’affrontare il tema del trattamento degli schiavi – dove pur si nota un sentimento di maggiore umanità – Varrone sostiene la tesi del maggiore vantaggio sul piano economico di un trattamento benevolo nei loro confronti.
All’utilitas si unisce poi la voluptas: ricco proprietario terriero e uomo dedito agli studi, Varrone sposta continuamente l’accento dal mondo della natura a quello degli uomini. Loda i costumi antichi, il patriottismo e gli antichi dèi della campagna, ma non manca di sottolineare il lusso tutto ellenistico delle sue splendide ville, affermando con forza il valore del buon gusto, piacere per lo spirito e fonte di guadagni. Tra due terreni dello stesso valore – afferma Varrone – di certo verrà acquistato, a un prezzo più elevato, quello più bello.
È anche grazie a questa varietas di spunti che il trattato, scritto in un latino semplice e funzionale, sarà sempre letto e citato.