(se avete perso la prima parte, cliccate qui)
09/12/1986
Jacques si infilò il cappotto e uscì. Fu investito dall’aria gelida. Cercò di capire qual era il citofono corrispondente all’appartamento in cui quello strano personaggio compiva gesti insensati. Il diciottesimo citofono era privo di etichetta, pensò che avrebbe potuto essere quello giusto. Provò a suonare anche se era certo che nessuno avrebbe risposto. Appena prima di premere il citofono di Pierre, sentì alzare la cornetta.
– Si, sono io- improvvisò Jacques.
Dall’altra parte non sentì nulla. Quel silenzio, per quanto imponente, non bastò a riempire quella strana sensazione di vuoto e solitudine in cui era improvvisamente precipitato. Si strinse nel cappotto e urlò con tutta la voce che aveva.
– So che sei lì! Lo so! Apri!
Si stupì delle sue stesse parole e della sua voce, era roca e nascondeva un ingiustificato grado di cattiveria. Pensò di essere diventato pazzo, paventò l’ipotesi che tutto quello che stava vivendo non era altro che il frutto della sua mente.
Vide uscire un signore dall’aria distratta che, non appena varcata la soglia del portone, si confuse con il silenzio e il desolante spazio che dava misura alla solitudine di ogni cosa. Jacques non riuscì a togliergli gli occhi di dosso, sebbene non avesse tratti somatici che potessero attirare l’attenzione. Gli occhiali pendevano appena oltre quella parte del naso deputata a sorreggerli. Aveva l’aria di svolgere uno di quei lavori inerenti alla diffusione della cultura, era la tipica persona che il mondo intero avrebbe classificato sotto il generico nome di professore. Camminava lentamente osservando il vuoto. Un vuoto che spesso invade queste persone fino a sottrargli quel dovuto residuo d’attenzione che ogni essere classificato come normale mantiene. Jacques provò improvvisamente un sentimento di odio. Avrebbe voluto che quella persona gli desse la considerazione che meritava. Il signore, ignorandolo, seguì il vuoto verso il quale era diretto e scomparve nella leggera nebbia che lentamente stava creando un bianco, diafano tappeto sospeso.
Jacques rimase immobile. Digrignava i denti e stringeva la giacca nei pugni senza accorgersi che l’aveva già bucata provocando la fuoriuscita di alcune piume. Rimase in quella posizione per molti minuti, più di quanti un uomo giudizioso rimarrebbe una volta appurato che la temperatura stava scendendo oltre livelli accettabili. Il tempo passava senza che se ne accorgesse. In preda ad uno stato imperscrutabile lasciava che il fiato formasse ad ogni respiro una condensa corposa e persistente. La mandibola serrata tratteneva il tempo che l’avrebbe presto condotto verso una fine prevedibile. Le mani cominciarono a tremargli mentre, lontano dalla realtà, imprigionato nelle segrete di un odio sovrano, lentamente perse la sensibilità delle gambe. Non aveva più nulla, gambe, braccia, testa, il suo corpo privo di ogni arto era ormai diventato una cosa inutile tra inutili cose. Il viso, ormai colorato di rosso, aveva assunto un’espressione sbiadita.
I rumori all’esterno del suo corpo penetravano nella pelle sommandosi e creando un riverbero infinito. Il passaggio di una macchina, i passi lontani di una persona, una tapparella che si chiudeva, tutto, tutti i rumori, anche quelli che non c’erano finirono per riempire ogni spazio sottocutaneo non più irrorato dal sangue. Sentì la voce dei raggi del sole che ancora non c’erano, sentì il saltellio di un passero e sentì il rumore del becco che martellava alacre l’asfalto.
Da lontano un uomo vestito con stracci, si trascinava verso Jacques. La pelle del viso, molto scura, sprofondava nella barba grigio chiara. Il cappello che portava era ricavato da un indumento scolorito e sporco, forse un maglione di lana. Già da lontano si poteva intravedere il movimento sommesso delle labbra, se non altro perché ne seguiva la formazione alternata della condensa.
Il mendicante, giunto a pochi centimetri da Jacques, estrasse con cura maniacale un bicchiere di plastica a fisarmonica, uno di quelli che si possono all’occorrenza chiudere in una scatoletta. L’aveva fatto lentamente, come se conservasse solo in quel gesto ripetuto chissà quante volte durante il giorno, la poca dignità che l’indigenza gli aveva lasciato.
Per favore per favore per favore per favore per favore per favore… si manifestò in una litania infinita e monocorde. Forse troppo abituato all’indifferenza non si accorse che Jacques non sembrava più reagire alle sollecitazioni esterne.
Per favore per favore per favore per favore per favore per favore, lo disse per circa dieci minuti. Poi smise. Rimase fermo a pochi centimetri da Jacques, immobile anche lui per qualche secondo fin quando capì che era il caso di andarsene: da quello strano personaggio non sarebbe riuscito a rimediare nemmeno un franco. Con la stessa cura con la quale l’aveva aperto, richiuse il bicchiere. Lo mise in tasca e si trascinò lungo quell’ignota strada lasciandosi divorare dalla nebbia.
Jacques cominciava ad avere i primi segni di assideramento. Erano ormai quattro ore che era fermo nella stessa posizione. Il freddo diventava sempre più insopportabile e nella rigidità fisica e mentale in cui era imprigionato, non era più in grado di sentire o vedere nulla.
Fu la gamba sinistra a cedere per prima e molto lentamente.
Cadde a terra verso le 4,30 del mattino.
04/06/1985
Nel parco vicino a Rue Michel Rambaud, Lione.
Jacques, dopo essere svenuto, riprese conoscenza solo grazie alle percosse di Pierre.
– Ho visto il braccialetto, Pierre.
Furono le prime parole che disse Jacques ansimando e ancora totalmente confuso.
– Che braccialetto… dai andiamo via da qui.
Lo tirò su di peso e cercò di trascinarlo lungo il sentiero.
– Quando sono caduto… Pierre, quando sono caduto ho visto la mano di Linda… la mano e il suo braccialetto, era a terra, inanimata la sua mano, riportami lì.
– Sei ubriaco… io non ho visto un bel nulla lì, avrai anche sbattuto la testa, ora si va a casa.
Jacques tentò di protestare ma non riuscì a parlare e svenne nuovamente.
09/12/1986
Il corpo di Jacques giaceva per terra. La testa era immersa in una pozza di sangue. La nebbia si era ormai diradata completamente ed il sole aveva aperto un limpido varco alla banale vita ordinaria. Un passero si avvicinò con timore al corpo di Jacques e comincio a beccare non distante dal braccio sinistro.
Intorno alle sette un uomo comparì in cima alle scale del portone. Accanto a lui un bambino teneva in mano un martello di plastica. Lo faceva roteare nell’aria e ogni tanto mimava il gesto di battere su un chiodo. Il padre del bambino appena si accorse della presenza di un corpo sanguinante che giaceva sul marciapiede coprì con la mano gli occhi del piccolo, lo riportò a casa in tutta fretta e chiamò un’ambulanza.
Poco dopo scesero Pierre e Guenda. Si avvicinarono al corpo esanime di Jacques. Si guardarono negli occhi come per accertarsi l’un l’altro di aver immaginato già da tempo che la storia di quell’uomo solo sarebbe finita nel silenzio come nel silenzio iniziò su questa mia sedia, suggerita dal surreale disegno del fumo di un sigaro.
– Guenda ascolta, nulla di tutto ciò che pensava di vivere era vero, nessuna Linda è mai esistita, forse anche in questo momento… lui non è in nessun paradiso né in nessun inferno. Jacques sta ancora immaginando tutto.
Guenda continuò a guardare Pierre come se stesse aspettando altre parole. Poi semplicemente annuì.
***
08/02/1987
Cimetière de la Croix-Rousse, Lione.
Una donna entrò nel cimitero. Lentamente, quasi sospesa da terra e avvolta da un’ordinata inquietudine, si avvicinò alla tomba di Jacques Duval. Fece forza sulla minuscola levetta per togliersi il braccialetto dal polso. Un rombo, un ottagono, un rombo, un ottagono, tutti d’argento, tenuti da piccoli cerchi luccicanti. Lasciò cadere il braccialetto sulla lastra di marmo ma non si sentì alcun rumore: l’eco si perse in altri mondi.
Linda se ne andò e nessuno più, nemmeno gli angeli, richiuse il braccialetto per ricomporre il cerchio di un senso di cui il mondo quasi mai necessita.