Li portarono con ogni mezzo. Ne scaricavano con le carriole come mattoni. Erano migliaia, o forse decine di migliaia.
Certo, non erano che oggetti, nel mare delle atrocità del Reich.
Però erano pur sempre vite, storie, magari mai accadute, persino inverosimili come fiabe. Erano cronache di viaggio, descrizioni di luoghi esotici e consigli per le colture, arte della guerra e medicina, divertimenti poetici e crude tavole di anatomia.
Erano cataloghi di torture torturati, cronache mondane strappate al mondo, misteri dell’archeologia ripiombati nell’ignoto, bellezze della Belle Epoque abbrutite, saggi scalfiti per insania.
Erano tutti uguali, le tessere del mosaico della conoscenza, erano tutte lì, a formare un monte che non poteva paragonarsi per altezza che a una piccola collina, dalla quale sarebbe stato possibile, qualora ci si fosse arrampicati, scorgere le case sfitte del Ghetto, gli occhi terrorizzati dei rifugiati, la tranquilla sicumera di un dirigente del Partito Nazional Socialista.
Erano lembi piegati dalla sofferenza, pagine strappate via per sempre alle rilegature che con il tempo se ne erano innamorate, colla e filo saldati dalla malasorte.
Fu il grande rogo dei libri, il più grande passo verso l’abisso.
Da quel momento non avemmo più parole, pensieri, immagini per ricordare, vivere, sperare.
Capimmo in quei giorni che anche vivendo saremmo sempre stati solo dei corpi vuoti d’anima.