Ciò che può dare senso al mondo per Kant, ciò che ci fa distinguere il buono, il bello, il giusto da tutto il resto, è il fine morale, ma questo fine risulterebbe lontano e irrealizzabile se la natura stessa fosse una macchina e non contenesse in sé nemmeno un briciolo di senso. Prendiamo ad esempio un fiore: esso è un oggetto naturale, e come tutti gli oggetti naturali è governato da leggi fisiche; ma è anche altro: esso può essere visto in modi differenti in base agli occhi che l’osservano, siano essi quelli di una persona comune, di un botanico, di un fisico o di un artista. Quindi un semplice fiore non può ad un certo punto essere ricondotto ad un oggetto naturale al pari di ogni altro, ma è invece qualcosa che può suscitare un sentimento di contemplazione, e quindi ammirato per la sua apparente quanto sofisticata bellezza.
Le due facoltà conoscitive superiori dell’uomo, l’intelletto e la ragione, hanno secondo Kant una giurisdizione oggettiva, cioè sono facoltà legislatrici. Esse determinano con le loro leggi i loro propri oggetti di riferimento, che sono la natura come oggetto di conoscenza scientifica, nel caso dell’intelletto, e l’imperativo morale come oggetto di conoscenza pratica, nel caso della ragione.
Ora questi due domini sono del tutto contrapposti: il primo appartiene alla dimensione sensibile, cioè i fenomeni della natura, il secondo invece alla dimensione sopra-sensibile, definita anche dimensione noumenica, alla quale possiamo avere accesso solo attraverso l’esperienza morale. Se il principio morale per eccellenza, ossia la libertà, è soprasensibile, i suoi effetti devono però realizzarsi nel mondo dei fenomeni. Affinché tutto sia possibile la natura non dovrà mostrarsi immune ad accogliere gli effetti della libertà. Ed è proprio qui che entra in scena la facoltà sui generis, cioè la capacità di giudizio.
I modi di considerare il fiore, o la natura in genere, sono appunto i modi della capacità di giudizio, che collega il mondo della natura e i suoi fenomeni con quello sopra-sensibile e noumenico. La sua particolarità sta nel fatto che col giudizio non si determina nulla: è anch’esso legislatore a priori, ma non oggettivamente, perché il suo campo e i suoi oggetti di conoscenza sono pressappoco infiniti e non determinati, come nel caso dell’intelletto o della ragione.
Ora, tutto ciò che è estetico può essere ricondotto solo al sentimento del piacere, cioè una facoltà dell’animo umano che è esclusivamente soggettiva, e un giudizio estetico non è mai un giudizio conoscitivo. Il predicato per eccellenza è il bello, e la sola facoltà soggettiva in grado di determinarlo è il gusto.
Ma il gusto non significa qualcosa di arbitrario, anzi esso pretende una validità universale. Una validità universale senza concetto, perché un giudizio estetico non è un giudizio conoscitivo, ma in ogni caso universalmente soggettivo, e chi giudica una cosa bella per sé pretende il consenso di tutti. Quindi il giudizio di gusto e il piacere si fonderanno sul presupposto di una comunicabilità universale, definita da Kant senso comune.
Il giudizio di gusto non è un giudizio conoscitivo, ma nella contemplazione del bello si manifestano le condizioni per una nuova forma di conoscenza, cioè il libero scambio tra immaginazione e intelletto, tra le immagini del mondo sensibile e la nostra capacità a priori di concettualizzarle e descriverle. Queste condizioni conoscitive sono presenti in ogni uomo, e formano la deduzione. Ma il gusto ha la sua peculiare caratteristica, che è anche la sua problematicità, quella dell’invenzione e della creazione. La garanzia di questo giudizio non è mai certa, anzi si può addirittura presupporre la validità di tale giudizio, ma non sarà mai un dato certo ed oggettivo, ed il senso comune diventa un appello ideale piuttosto che concreto.
Questo senso comune presenta tre massime: 1) pensare da sé, 2) pensare mettendosi al posto degli altri, ed infine 3) pensare sempre in accordo con sé stessi. La prima massima si riferisce all’intelletto, la seconda si riferisce alla finalità pratica della ragione, la terza alla pluralità dell’esistenza, cioè un giudizio che mette d’accordo tutti distruggendo prima i nostri dubbi, quindi alla capacità di giudizio.
Kant amava spesso domandarsi << Perché mai è necessario che esistano gli uomini? >> Un occhio ancora più acuto vedrebbe un’opera come la Critica della capacità del giudizio in termini completamente diversi. Tutti i suoi argomenti – il particolare, inteso sia come un evento naturale che storico; il giudizio, come facoltà della mente umana; la socievolezza nell’uomo come funzionamento di questa facoltà – appartengono tutti all’eminente sfera della politica.
Il messaggio dell’opera sta proprio in questo: nessun uomo può vivere solo, che gli uomini dipendono l’un l’altro non solo nei bisogni primari e nelle loro cure, ma anche per quanto concerne la loro somma facoltà, la mente, che non può funzionare al di fuori di ogni società umana.
Mi sembra un ottimo spunto dal quale partire per la comprensione di un’opera così complessa che sta alla base della filosofia moderna, qual è la Critica della capacità di giudizio.