La grandezza di Marco Tullio Cicerone? Aver messo tutto se stesso nella propria sconfinata produzione. Non solo tanto e tanto impegno, ma soprattutto il suo mondo, quello di un uomo che ha vissuto con profonda partecipazione ai propri tempi la crisi della Roma repubblicana del I a. C.
Anche in questo caso, non ha potuto fare a meno di cimentarsi in ciò che gli riusciva meglio: scrivere. Ed in particolar modo negli anni Cinquanta quando, emarginato dai centri del potere, costretto addirittura all’esilio, Cicerone ha dovuto assistere al triste spettacolo del degrado della vita politica romana. Precluso così all’azione, il celebre oratore decide di impegnarsi in una riflessione sulla natura dello Stato e delle leggi. Riflessione arguta, teorica e concreta allo stesso tempo, molto ancorata alla situazione storica. Il modello indiscusso è Platone. Vengono alla luce il De re publica e il De legibus.
Noi ci concentriamo sulla prima.
Iniziata nel 54, pubblicata nel 51 a. C., l’opera si presenta al lettore come un dialogo in sei libri che si immagina avvenuto nel 129 a.C. tra Scipione Emiliano, Lelio ed altri personaggi minori del Circolo degli Scipioni. L’esade è facilmente suddivisibile in tre triadi.
I primi due libri sono dedicati alla vetusta quaestio sulla miglior forma di governo. Cicerone riprende la storica tesi di Polibio, secondo la quale il sistema costituzionale romano è superiore agli altri in quanto sistema misto, con organi monarchicici (il consolato), aristocratici (il Senato) e democratici (il tribunato della plebe).
Il terzo ed il quarto libro affrontano i temi della giustizia e dell’educazione romana, ritenuta superiore a quella greca.
Gli ultimi due libri sono dedicati infine alla formazione dell’uomo di Stato. Cicerone invoca un moderator, rector et gubernator civitatis, supremo moderatore della vita politica e sociale, in grado di operare per il bene comune (ben si può vedere quanto sia attuale il pensiero degli antichi!).
Splendida appendice del sesto libro, spesso tramandata come opera autonoma, è il celebre passo noto con il nome di Somnium Scipionis, che condensa in sè filosofia e cosmologia. Scipone Emiliano narra di come, nel 149 a. C., appena giunto in Africa in qualità di tribuno agli inizi della terza guerra punica, fosse stato visitato in sogno prima dal nonno Scipione l’Africano e poi dal padre Lucio Emilio Paolo. Il protagonista del sogno sarebbe stato portato tra gli spaza celesti, e dall’alto della Via Lattea avrebbe visto da una prospettiva tutta nuova quel minuscolo ed insignificante puntino che è il nostro pianeta.
Agli uomini politici che abbiano agito con virtù nel bene comune sarà garantita l’immortalità dell’anima ed una dimora eterna nella Via Lattea: questa la promessa ricevuta in sogno, che costituisce la degna chiusura di un capolavoro del mondo antico, costituendone, di fatto, una delle pagine più alte.
E il De re publica, nei secoli, avrebbe sempre goduto di grande fortuna, segnando uno dei massimi esempi di quell’indiscutibile continuità che lega il mondo greco-ellenico a quello romano, pur salvaguardando uno sguardo tutto “romano” sulla vita e sul mondo.