Non ha bisogno della nostra presentazione Marco Tullio Cicerone, una delle più affascinanti e poliedriche figure che la cultura dell’Occidente abbia conosciuto.
La sua produzione è immensa. Gli argomenti trattati un’infinità, come i manoscritti che hanno permesso alle generazioni future di conoscere un uomo, un politico, un filosofo, uno scrittore di superbo spessore.
Tanti lo hanno lodato, molti lo hanno emulato. Tutti noi conosciamo la grande influenza che il suo pensiero e le sue opere hanno esercitato sulla letteratura e, più in generale, sulla cultura classica e cristiana.
Tutti noi sappiamo che, con l’invenzione della stampa a caratteri mobili, il primo libro ad essere stampato fu la Bibbia. Pochi, però, sanno quale fu il secondo: il De officiis di Cicerone, la sua ultima opera filosofica, composta tra l’ottobre e il dicembre del 44 a. C., un anno prima della morte.
Si tratta di una lunga lettera indirizzata al figlio Marco, che si tovava in quel momento, per ragioni di studio, lontano da Roma, nell’altra grande capitale della cultura e della civiltà, Atene. Cicerone rinuncia, rispetto alle altre opere di stampo filosofico, alla forma dialogica e al metodo dossografico (fondato sull’enunciazione e la rassegna delle opinioni riguardo un determinato argomento): la finalità, questa volta, è diversa. In un momento pubblico e personale quanto mai critico, Cicerone vuole consegnare al figlio un ideale di perfezione morale. È la sua ultima voce precettistica. Il De officiis viene così a configurarsi come il testamento spirituale del grande Cicerone, la sua eredità etico-politica, ma soprattutto umana: nell’opera c’è poco dell’uomo di Stato, ma tanto del padre, che gioca con le corde affettive del suo cuore per consegnare al figlio un mondo migliore.
Dal titolo si evince il tema del trattato: l’officium, ossia il dovere. L’opera è divisa in tre libri: molto schematicamente, i manuali insegnano che il primo tratta di ciò che è onesto (l’honestum), il secondo di ciò che è utile (l’utile) e il terzo del loro conflitto. Con in mente sempre la precettistica e il pensiero di Panezio, che aveva prima di lui affrontato l’argomento, Cicerone affronta una minuziosa casistica di problemi reali e concreti che hanno lo sfondo della Roma contemporanea.
L’influsso dello stoicismo è fortissimo: la guida alla ricerca dell’onesto è affidata alle quattro virtù cardinali, ossia sapienza, giustizia, fortezza e temperanza.
Il messaggio dell’opera si palesa nel terzo libro: il conflitto tra onesto e utile è solo apparente: il vero utile non può che coincidere sempre con l’onesto. È il lascito di un padre al figlio, di un uomo alla posterità. Il progetto ciceroniano, basato sulla celebre concordia omnium bonorum – un patto tra tutte le forze sociali oneste – assume qui la sua forma definitiva.
Il De officis gode di immensa fortuna: presso i Romani (secondo Plinio il Vecchio l’opera si doveva imparare tutta a memoria); i Cristiani, soprattutto con Sant’ Ambrogio; gli umanisti, che ne fecero un caposaldo della loro rivoluzione filosofica.
Ma fu Voltaire a darne il giudizio più entusiasta, definendo l’opera come “la più saggia, vera e utile a cui l’uomo avesse posto mano”. Come si dice, scusate se è poco…