Lo confesso, non ho saputo resistere.
Ero tra i due miliardi di abitanti del pianeta terra che lo scorso venerdì 29 aprile hanno assistito via TV, Internet, radio o megaschermi in piazza, al matrimonio tra William, stempiato e gonfio rampollo della famiglia reale inglese e la giovane promessa Kate Middleton.
Lo ammetto, volevo vedere l’abito della sposa e i deliziosi cappellini che le numerosissime ospiti avrebbero sfoggiato, e per l’invidia mentre guardavo con le amiche la diretta su Internet mi sono messa una lattina di Coca Cola in testa, che mi sembrava doveroso, tra l’altro.
Volevo vedere di che colore era l’abito della regina, un bel giallo canarino che ricorda tanto il mio colorito mattutino. Volevo vedere se Harry, il rampollino pel di carota da sempre mio preferito perché ribelle, sarebbe riuscito ad arrivare sobrio in chiesa.
E se Camilla assomigliasse sempre ad una cavalla selvaggia malamente domata da un marito faccia di cavallo pure lui. Confermato.
Altra cosa che non volevo perdermi era l’espressione sorniona di Lady Middleton, la diabolica e strategica madre della sposa, la mente dietro il piano nuzial-monarchico, regista neanche troppo nascosta della fiabesca vita di Catherine Elizabeth, che dai tempi della prima ecografia in cui scoprì che l’inquilino nella sua pancia era femmina, aveva deciso con determinazione chirurgica che quella sua ragazza a Buckingham Palace ci sarebbe entrata, con le buone o con le cattive. A costo di prendere a testate il portone d’ingresso e a calci in culo il maggiordomo che tardava ad aprire.
Lo confesso, lo spettacolo non mi è dispiaciuto.
Ho apprezzato il mix tipicamente britannico di tradizione e modernità, che è poi ciò che ti colpisce maggiormente quando bazzichi per le strade di Londra, e l’entusiasmo della gente per le vie affollate che sventolava dei piccoli Union Jack o le immagini degli sposi.
Gli inglesi, malgrado il normale malcontento per le tasse, la disoccupazione, la crisi immobiliare, la povertà in aumento e le mille problematiche dell’ essere un cittadino di un paese così eterogeneo nel bene e nel male, mi hanno sempre affascinato per questo invincibile, concreto e fermo (forse un po’ naif) attaccamento alla loro tradizione. L’impressione che ho avuto è che quella moltitudine di persone fosse davvero felice che i due ragazzi si stessero sposando, forse mi sbaglierò ma c’era gioia negli occhi della gente mista a voglia di partecipare ad una festa spensierata, e questo mi ha messo allegria.
Normalmente quando assisto a una cerimonia di nozze non sono, invece, la persona più allegra e concentrata del mondo: tendo a distrarmi spesso guardando i lampadari in chiesa, i fiori, gli affreschi, gli altri invitati, canticchio nella mia testa la mia canzone preferita, mi alzo quando tutti si siedono e viceversa, e se mi inginocchio sulla panca a pregare, prego solamente che quel supplizio finisca presto perché mi sta saltando il menisco e un paio di legamenti crociati. Poi, però, mi riprendo contatto con la realtà e ritorno presente a me stessa; tutto questo per dire che non sono esattamente una fan di questi riti (infatti non sono sposata, ma qui il discorso si farebbe troppo lungo, comunque non è che io abbia ricevuto montagne di proposte o che ci sia la fila fuori dalla porta di casa mia) e che ho sempre vissuto l’invito dell’ennesima amica pronta ad essere impalmata con la stessa gioia con cui mi scopro l’herpes sul labbro poco prima di un appuntamento galante. Ne farei a meno, sono fatta così.
Mi sono chiesta, quindi, il perché di questo mio interessamento per il matrimonio di due miliardari lontani anni luce dalla mia vita, e mi sono risposta che è sì tutta colpa dei mass media, delle televisioni, della globalizzazione degli eventi, della mercificazione del tutto, della bulimia catodica e dell’anoressia culturale dilagante, ma anche del fatto che – in fondo, in fondo – io come molti ho voglia di raccontarmi una favoletta, quella della bella fanciulla che sposa il suo principe azzurro e poi divorzia più ricca di prima, e che a volte ho bisogno di evadere dalla retorica del “sono solo dei ricchi viziati e privilegiati, al rogo, al rogo”, per godermi senza motivi seri uno spettacolo di carrozze e cavalli, cappellini estemporanei e abiti sfarzosi in un contesto incantevole e romantico come le strade della mia adorata Londra. Senza motivo, così, come un dolce far niente.
Quello che invece mi risulta indigesto è l’inutile enfasi sulle dure prove che la vita riserverà alla deliziosa Kate. Biografi di corte, scrittori di corte, giornalisti di corte, tutti sono concordi nel giudicare irto di ostacoli il futuro della giovane neo duchessa, perché c’è il protocollo da rispettare, il protocollo!
Inizialmente non capivo, sarà che a casa mia il protocollo altro non era che il foglio sul quale dovevamo scrivere i temi di italiano e i compiti in classe, forse ero una bimba impavida, ma non mi faceva paura.
Poi, però, mi sono documentata perché non volevo essere presa alla sprovvista e ho capito che il protocollo prevede per la sventurata Kate gli obblighi di corte, un’agenda di presenze a questo o quell’evento nella sua funzione istituzionale di moglie di sua altezza reale Principe del Galles nonché Duchessa di Cambridge, l’obbligo di prole per garantire la continuità, possibilmente maschi, un dress code adeguato al contesto, e tanto, tanto tempo libero.
Povera Kate, povera reietta.
Quasi mi fa pena la Kate.
Che culo invece mia madre che ha allevato 3 figlie barcamenandosi tra un faticoso lavoro di domestica a ore, un marito proletario (fa rima con miliardario ma c’è differenza), un padre anziano da accudire e una casa da pulire ogni giorno. Non abitavamo a Buckingham Palace, Kensington o Chelsea ma anche lei aveva i suoi obblighi di protocollo perché era la regina della casa: lavarci, pettinarci, vestirci in modo dignitoso, assicurarci che fossimo ben nutrite, fare la spesa in negozi non sempre vicino a casa percorrendo il periplo del quartiere per risparmiare quelle poche lire che facevano la differenza, tenere la casa pulita e ordinata per noi e per la gente che non si sa mai che se viene qualcuno facciamo brutta figura, questo il protocollo ufficiale.
Lavare pulire stirare strofinare cucinare, allattare, crescere educare, dire fare baciare lettera e testamento.
Considerato questo presupposto e che esistono milioni di donne che sono la fotocopia di mia madre, non mi do pace al pensiero che siamo state fregate a causa di un titolo nobiliare non richiesto che cela malamente un secolare imbroglio: la regina della casa è seduta sì su un trono, ma è a forma di cesso e il protocollo ufficiale altro non è che: essere in piedi all’alba preparare la colazione svegliare il bambino lavarlo vestirlo portarlo a scuola correre a lavorare e dopo 8 ore (4 se sei fortunata) fare la spesa correre ancora a prenderselo questo bambino a calcio tennis piscina danza catechismo dentista medico nonna zia zio riunioni con gli insegnanti poi mentre gli fa fare i compiti cucinare ascoltare le lamentele del marito che ha litigato col suo capo e si vuole licenziare e solcare gli oceani in barca a vela anche se non sa nemmeno nuotare la suocera che devi urlare al telefono perché è sorda e nel frattempo: pagare le bollette andare in banca rinegoziare il mutuo chiedere un prestito perché la macchina è da rottamare telefonare alla madre che è più sorda della suocera poi ogni tanto fumare una sigaretta di nascosto con le amiche, dire molte parolacce e sognare di mollare tutto.
Care donne, se questa è una regina, non ci rimane altro che cantare tutte in coro: “GOD SAVE THE QUEEN”.