La sua figura da sempre sprigiona un fascino tutto particolare: Lucio Anneo Seneca, spagnolo (proprio così!), politico, drammaturgo e filosofo, testimone oculare di uno dei periodi più oscuri della storia romana, il principato di Nerone. Consigliere dell’ imperatore durante il cosiddetto “periodo del buon governo”, se ne allontana drasticamente quando il potere personale degenera in tirannia.
Nella produzione successiva al ritiro dalla scena politica, Seneca volge l’attenzione alla filosofia e ai problemi della coscienza individuale. L’opera più importante di questo delicato momento della sua storia pubblica e privata, nonchè una delle sue più famose in assoluto, sono le Epistulae morales ad Lucilium: ben 124 lettere, divise in 20 libri. A lungo si è discusso sulla natura reale o fittizia di questo epistolario; ma, come spesso accade, probabilmente in medio stat virtus: lettere vere, che in qualche caso includono una risposta di Lucilio, si alternano a lettere fittizie, di maggiore ampiezza, inserite al momento della pubblicazione.
Dalla raccolta emerge quel Seneca che, attraverso il corso dei secoli, è arrivato fino ai giorni nostri: il Seneca filosofo stoico, che condensa la sua straordinaria saggezza in una serie di motti, veri e incisivi come pochi. Le lettere vogliono essere uno strumento di crescita morale. Il destinatario è Lucilio, amico e discepolo che viene portato per mano sulla strada della verità. Seneca ritiene che lo scambio epistolare, mezzo di comunicazione codificato da un’ illustre tradizione, permetta di istituire un vero e proprio colloquium, in grado di favorire confronti, domande e risposte sui temi che vengono trattati. Gli argomenti sono svariati e nascono da una meditazione sulla vita quotidiana: è da qui che nasce il fascino di questa grande opera; un epistolario che affronta temi di grande rilevanza filosofica, ma che traggono spunto da ciò che si presenta sotto i nostri occhi.
Splendida l’epistola I del libro I, quella che fa un po’ da introduzione a tutta l’opera; quella che, in un certo senso, contiene in nuce le riflessioni che verranno poi approfondite in seguito.
Ita fac, mi Lucili: vindica te tibi
L’incipit riecheggia nella mente di Lucilio e di tutti i posteri che, dopo di lui, si sono cimentati in questa lettura: Fa’ ciò, mio Lucilio: rivendica a te il possesso di te stesso. Afferrare la propria vita, questo è il messaggio del filosofo. E farlo subito. Il tempo è l’unico dono che ci è stato concesso; gli uomini si lamentano della sua brevità: è troppo poco, sfugge via inesorabilmente, alla velocità della luce. Ma il maestro mette in guardia il suo discepolo: stai attento, Lucilio, non è così. Il tempo concesso a noi mortali è più che sufficiente, bisogna solo saperlo usare bene. “Gran parte della vita sfugge a coloro che agiscono male, massima parte a coloro che non fanno nulla, tutta la vita intera a coloro che fanno altro”. Il monito è chiaro e troverà esemplificazione nelle successive epistole: valgono molto di più 40 anni spesi bene, nella ricerca della verità e nell’esercizio della virtù, che 80 anni trascorsi nella pigrizia e nell’inerzia. Dum differtur vita transcurrit: mentre rinviamo, la vita trascorre. Appare quasi superfluo rilevare l’attualità di queste riflessioni, concepite in seno allo stoicismo da un uomo vissuto 2000 anni fa. Tempo e morte risultano intrecciate nella medesima riflessione: “In questo ci inganniamo, che vediamo lontano la morte; gran parte di essa è già passata: la morte possiede tutto il tempo che è dietro”.
Le sententiae senecane ricalcano il carpe diem oraziano. Con una differenza: Orazio, epicureo, parla degli attimi da godere, quelli che vanno vissuti, assaporati fino in fondo; Seneca, stoico, fa riferimento soprattutto all’esercizio della virtù. Entrambi pongono l’accento sulla finitudine insita nella natura umana.
Le Epistulae sono uno scrigno di felicità. Seneca aveva scritto per Lucilio e per i posteri. Immaginiamo, così, di non far torto a nessuno, se anche noi assorbiamo qualche goccia del suo Oceano di saggezza…