Primo Levi affermava che comprendere è impossibile, ma conoscere diventa una necessità per noi uomini. Ogni cosa di orrendo che è accaduto nella storia potrebbe ritornare, sedurre e oscurare anche le coscienze più distinte. Il Male è beffardo: prima ti sorride, poi ti uccide.
Nell’agosto del 1941, in un bosco vicino alla piccola cittadina ucraina di Bjelaja Zerkow, a sud di Kiev, alcuni membri del Sondercommando delle SS, appartenenti alla Wehrmacht, uccisero novanta bambini ebrei. Con una fossa pronta da riempire, scavata una manciata d’ore prima, i bambini vennero portati lì da un trattore. Furono fatti scendere e messi in fila lungo il ciglio della fossa, poi centrati uno alla volta dai colpi di fucile. Volarono a braccia spiegate, come se fossero trascinati da dietro mentre cercavano di afferrare qualcosa d’invisibile. Alcune grida, poi il silenzio tra i rami. Al processo, il generale delle SS August Hafner tenne a precisare che, prima della fucilazione, una bambina dai capelli biondi gli stringeva la mano. Più tardi anche lei fu uccisa. L’ultimo particolare venne pronunciato da Hafner con tranquillità, sempre composto, con una certa misura e bravo a scandire le parole. Come se quel particolare, quella manina tra le sue dita, fosse in fin dei conti un momento come altri. L’ultimo straziante particolare, banale quasi a dirlo.
Hannah Arendt, una delle più grandi pensatrici del secolo scorso, e forse la più grande sul Totalitarismo, vedeva nell’Olocausto una vera trasformazione sul piano antropologico, l’Umanità sintetizzata in due categorie ben distinte, le vittime e i carnefici. Le une spoglie della loro singolare individualità come esseri umani autentici e irripetibili, con i loro valori, la loro cultura, le loro origini; gli altri che, nella loro produzione insensata di morte, finiscono per contraddire il loro stesso principio di sopravvivenza.
Negli anni Sessanta Arendt aveva definito l’Olocausto un crimine contro l’Umanità, in quanto negazione assoluta della diversità come attributo imprescindibile, senza la quale l’Umanità non può esistere. L’Olocausto è un crimine contro gli esseri umani perpetrato sulla popolazione ebraica. La scelta delle vittime ha però una sola motivazione, quella da ricondurre all’antisemitismo, ma non alla natura del crimine. Infatti un genocidio è una violenza contro la pluralità degli esseri umani, quindi contro l’esistenza umana in generale. La diversità è una vera e propria caratteristica di ogni essere umano, ed un genocidio non è altro che un attentato, un sabotaggio al nostro “esserci” sul mondo, alla nostra convinzione di esistere. Se non ci fosse la Diversità non esisterebbe alcuna Umanità, e quest’ultima perderebbe ogni significato.
“La banalità del male” (Eichmann a Gerusalemme) è il resoconto della Arendt delle 120 sedute che videro processare Eichmann, spietato criminale nazista. Nato nel 1906, coordinava l’organizzazione dei trasferimenti degli ebrei verso i campi di concentramento. Scappato dal processo di Norimberga, nel 1960 venne catturato dalla polizia israeliana in Argentina, dove si era rifugiato, e scortato a Gerusalemme. Condannato a morte, la sua testa venne infilata in un cappio il 31 maggio del 1962.
Nel libro ci viene descritta la processione di un uomo qualunque, normale, né demoniaco né mostruoso. Di fronte a tanto Male perpetrato da questo individuo, la Arendt rimase stupita da tale mediocrità, oltre alla superficialità che sembrava pervenirle dai suoi gesti e dalle sue parole. Ma era anche un’acuta pensatrice, e seppe intuire in lui non una semplice stupidità, ma qualcosa che travalica quest’ultima, di natura certamente più terribile: negli occhi di quell’uomo non vi era alcuna forma di pensiero. Eichmann era un uomo a capo di un reparto, ma era pur sempre un subordinato che viveva in uno spazio delimitato da leggi e ordini, ai quali offriva una cieca forma d’obbedienza. Ed era soprattutto l’emblema di una terribile normalità, uomini ordinari che celano mondi mostruosi e disumani. Proprio in tutta quella normalità la Arendt rintracciò la spietata banalità del Male. Questa “normalità” faceva si che alcuni atteggiamenti venissero tollerati dal cittadino comune, applicando delle regole senza riflettere sul loro contenuto. Uomini come Eichmann ve ne erano a centinaia di migliaia, ed erano, e lo sono tutt’ora, terribilmente normali.
La Arendt prese come modello di pensiero quello socratico. Un uomo “terribilmente normale” non è capace di rendersi giudicabile, cioè in prima istanza giudicato da se stesso. Un uomo che si giudica si chiede fino a che punto sarebbe capace di vivere in pace con se stesso dopo aver commesso determinate azioni. Non è una questione d’intelligenza, né tanto meno dipende da grandi doti morali, ma presuppone un dialogo tra Io e Io che Socrate chiamava “pensare”. E l’incapacità nel farlo non è un atteggiamento stupido perché risiede anche nelle persone più intelligenti, ma tanto basta per creare un male grandissimo, a volte dalle proporzioni incalcolabili.
Chi pensa, cioè chi giudica se stesso, è essenzialmente una persona perplessa, entra in un dialogo con se stesso e rifugge dal bianco e dal nero, dal Bene e dal Male. Libero da ogni struttura morale, il pensiero rende l’uomo capace di giudizio. E la banalità del Male che appare attraverso Eichmann renderà evidente il paradigma del pensiero:
“La mia opinione è che il male non è mai ‘radicale’, ma soltanto estremo, e che non possegga né la profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare tutto il mondo perché cresce in superficie come un fungo. Esso sfida come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, andare a radici, ed nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua “banalità”… solo il bene ha profondità e può essere integrale.” Hannah Arendt