Si erano congratulati tutti con lui quando aveva dato la meravigliosa notizia. Accolse con orgoglio i sorrisi di suo padre, le lacrime di commozione della madre e il viso del fratello minore che s’illuminava di stima per lui.
Non era mai successo che fosse l’oggetto di così tanti complimenti. Riempiva la coppa di vino e di frasi d’augurio e non ne era mai sazio, si ubriacava nel primo momento di tutta la sua vita in cui era lui il vincente, non gli altri.
Anche se a molti sarebbe sembrata una visione semplicistica della vita, Marco credeva che gli uomini si dividessero fondamentalmente in vincenti e perdenti. I primi solitamente brillavano in tutto ciò che decidevano di intraprendere, avevano fortuna con donne e lavoro e, naturalmente, non mancava mai loro del denaro; tutti gli altri dovevano cercare di arrabattarsi l’esistenza in qualche modo, sempre all’ombra delle vittorie altrui. Marco sapeva bene di essere un perdente, ma ormai se n’era fatta l’abitudine: mica l’aveva deciso lui di nascere in una famiglia piccolo borghese ormai alla soglia della povertà senza nemmeno venir dotato di un’intelligenza superiore alla media. Era un mediocre ragazzotto che amava passare il tempo con i suoi coetanei e a fischiare dietro alle femminucce. Non era infelice, dopotutto, si accontentava di poco e non avanzava grosse pretese dalla vita. Esisteva e vivacchiava, senza grosse gioie ma anche senza i dolori che attanagliavano giovani più intelligenti di lui.
Capì di essere un perdente quando si accorse che non aveva collezionato vittorie nella vita, ma solo pareggi e addirittura abbandoni, se non vere e proprie sconfitte. Non c’era nulla di cui fosse fiero di aver fatto o vissuto a trent’anni e persino il pezzo di carta dove c’era scritto che era dottore in scienze della comunicazione era diventato un quadro polveroso sopra al camino del salotto. I suoi genitori gli avevano dato del fannullone per anni, ma lui cessava di ascoltarli nel momento in cui, brontolando, gli allungavano una banconota arancione per far fronte alle spese del fine settimana. Quando si rese conto che il suo nome non compariva nell’albo dei vincenti, sulle sue spalle calò il peso della responsabilità tutto in un colpo, facendolo vacillare.
Decise che doveva dare una svolta alla sua vita.
Cominciò a fare telefonate, compilare scarni curricula da inviare ad aziende e privati, presentarsi agli uffici delle agenzie per il lavoro. Entrava e usciva e vedeva sempre le stesse facce, gli stessi occhi vitrei da bambola delle impiegate che sorridevano e non volevano offrirgli nessun impiego.
Stage e apprendistati, non retribuiti o sottopagati, perché nessuno voleva assumere un giovane-non-più-giovane senza esperienza, nemmeno il pizzaiolo egiziano dietro casa sua. Con un sorriso lo congedavano ridandogli il curriculum vitae tra le mani e le loro espressioni gli gridavano in faccia Perdente! Perdente! Perdente!
Non avrebbe mai vinto, lo sapeva. Ma continuava a correre in tondo come il cane che si morde la coda, perché in cuor suo era sicuro che ci fosse, da qualche parte, un posto anche per lui.
La telefonata arrivò in un pomeriggio di pioggia, mentre Marco se ne stava a rosicchiare un cono gelato di fronte all’ennesimo programma televisivo idiota delle tre del pomeriggio.
«Buongiorno, parlo con Marco Turchi?».
Sì, era lui e dall’emozione quasi rovesciò un po’ di cioccolato sui pantaloni del pigiama: chiamavano per offrirgli un colloquio di lavoro.
Accettò e si presentò là vestito di tutto punto con gli stessi abiti che indossava il giorno della laurea, ancora immacolati da allora. Lo ricevettero in un piccolo ufficio al primo piano della ditta e gli fecero qualche domanda conoscitiva, giusto “per inquadrarlo un po’”.
Pochi giorni dopo lo richiamarono, offrendogli un posto.
La sera in cui lo annunciò a casa divenne il protagonista indiscusso della serata. Tra abbracci e congratulazioni e telefonate ai parenti per raccontare loro la bella notizia (Non era un fannullone, no, doveva solo trovare la sua strada!), Marco trascorse una delle giornate più memorabili della sua vita.
Si sentiva un vincente.
I primi tempi il lavoro d’ufficio nemmeno gli dispiaceva: svolgeva con perizia e costanza tutti i compiti che gli affidavano, chiedendo chiarimenti dove necessario e mostrandosi sempre volenteroso ed efficiente. Capitava che il caporeparto a volte lodasse il risultato di qualche sua ricerca o catalogazione e in quei casi Marco andava in brodo di giuggiole, rimanendoci in ammollo anche per parecchie ore.
Il brodo però si raffreddò gradualmente e nel giro di poche settimane divenne tutt’altro che accogliente. L’impiego cominciava ad assumere le tinte grigie della monotonia e i colleghi che sembravano all’inizio così cordiali si raffreddarono nei suoi confronti, quasi non lo salutavano nemmeno più.
Marco ormai conosceva a memoria il tempo esatto che impiegava la fotocopiatrice a sputare venti fogli e i secondi che separavano l’accensione del computer da quando si poteva vedere la schermata iniziale. Disegnava cerchi e quadrati su fogli di carta riciclata e contava alla rovescia i minuti che mancavano alla pausa, che in ogni caso erano sempre troppi.
Poi tornava a casa e raccontava a sua madre con un gran sorriso che Oh, sì, le cose andavano benone, anche oggi il capo mi ha fatto i complimenti per il lavoro, meritandosi così un piattone stracolmo di lasagne che faticava sempre a mandare giù.
Prendeva stoicamente l’auto tutte le mattine per recarsi in ufficio, ma un paio di volte dovette accostare al lato della carreggiata perché dei crampi allo stomaco lo facevano impazzire. Diceva a se stesso che era il latte che beveva a colazione, sicuramente, ma non aveva il coraggio di farne a meno perché temeva di sbagliarsi. Sopportava il dolore con le lacrime agli occhi e quando gli sembrava che andasse meglio, ripartiva.
Un giorno uguale a tutti gli altri, dove però c’era stata una novità inattesa (avevano aggiunto la Cola Zero alle macchinette delle bibite, qualche donna doveva essersi andata a lamentare dal direttore), tornò a casa con lo stesso sorriso smagliante di sempre, che però ultimamente non riusciva a tenere sul viso a lungo. Ad aspettarlo però, c’era una tavola apparecchiata per tre e non per due come al solito.
«Ciao caro!», lo salutò sua madre schioccandogli un bacio sulla guancia. «Come stai? Oggi abbiamo una sorpresa!».
«Ciao!». Dal salotto uscì un giovane con i capelli scuri che lo salutò amabilmente. Non appena lo riconobbe, gli occhi di Marco si illuminarono.
«Lucio!». Non si vedevano da una vita. Corse ad abbracciarlo.
Erano cresciuti insieme, giocando tra gli animali della fattoria di suo nonno in campagna. Avevano trascorso intere estati ad aiutare il vecchio a mungere le mucche e raccogliere le uova delle galline, prima che Marco si trasferisse con la famiglia in città.
Mentre si stringevano con affetto, Marco sentì nei capelli dell’amico il profumo del fieno e una stretta al cuore lo riportò dove aveva trascorso alcuni dei momenti più intensi della sua infanzia. Gli sembrò di essere ancora lì, a correre giù per il campo di granoturco con gli steli ormai adulti, alti il doppio di lui, tagliandosi le dita e il viso con le foglie affilate.
Pranzarono tutti e tre insieme, parlarono di vecchi ricordi e nuove amicizie. Lucio aveva preso in gestione l’allevamento di suo nonno dopo più di dieci anni di inattività e intendeva rimetterlo in piedi.
«Lo so, non è uno dei lavori più remunerativi che offre l’Italia», si era stretto nelle spalle con un lieve sorriso, quasi a giustificarsi. «Ma era quello che mi andava di fare. Voglio almeno provarci».
Lucio rifiutò cortesemente il caffè che gli offrì la madre di Marco.
«No, la ringrazio, ma sono a posto così». Poi si voltò verso l’amico e lo guardò in viso, fissandolo negli occhi. «In realtà… Sono venuto qui con l’intenzione di rivederti, certo, dato che era di passaggio. Ma volevo anche chiederti se… ti andava di venire a lavorare da me, ecco. Mio nonno ti adorava, credo che sarebbe stato felice di averti ad accudire le sue bestie. Ora so che lavori, quindi immagino che tu non voglia accettare la mia offerta, però pensaci. Ti lascio il mio numero, fammi sapere».
Scrisse qualche cifra su un bigliettino, rimasero a parlare insieme ancora per qualche minuto, poi salutò e tornò alla stazione per prendere il treno.
Marco rimase per diversi minuti seduto a fissare il biglietto dove il suo vecchio amico aveva scritto il suo numero di cellulare con una grafia decisa e grossolana. Pensava all’ufficio, alla fotocopiatrice che impiegava esattamente otto secondi e mezzo a stampare dieci copie, al computer che ogni tanto faceva i capricci, ai numeri, le tabelle in excel che si ordinavano con un click. E a queste immagini si sovrapponevano quelle della fattoria, verdi, gialle e rosse come le tegole del fienile che aveva aiutato il nonno di Lucio a ridipingere. Gli tornò alla mente l’odore della vernice che lo stordiva e lo inebriava, le mattine fresche e umide che lo aspettavano quando si alzava all’alba per la mungitura e l’erba che gli macchiava i vestiti.
Si agitava a rimanere seduto, così si tirò in piedi e si avvicinò allo specchio del salotto, dove osservò la sua immagine riflessa. Era ancora vestito da lavoro, con la camicia dentro i pantaloni scuri e i capelli pettinati con una scriminatura impeccabile.
Non era mai stato un vincente. In quel momento lo capì e un sorriso sghembo gli comparve sul volto stanco. Alzò una mano alla fronte con l’indice e il pollice a formare una L. Loser. Perdente.
Prese il cellulare e digitò il numero del foglietto che teneva ancora stretto tra le mani. Le sue dita si muovevano in maniera così febbrile che ci mise quasi dieci minuti a creare la sequenza giusta di cifre.
«Pronto?».
«Pronto, ciao Lucio, sono Marco. Sei già partito?».
«No, ho il treno tra circa venti minuti».
«Ti va se ci troviamo a prenderci un caffè al bar della stazione? Così parliamo dell’offerta di lavoro di cui mi avevi accennato».
Mentre si accordavano per l’orario, l’immagine allo specchio di Marco ritraeva un giovane sorridente in camicia che si sbottonava il colletto stretto sotto il pomo d’Adamo.
Era l’immagine di un vincente.