L’eroe del giorno stamattina si è alzato presto. Incurante della prima nebbia di stagione si è infilato il cappello ed è salito in macchina, un’utilitaria grigio scuro. Non chiedetemi di più: nebbia o meno, le macchine che riconosco al volo saranno tre o quattro al massimo. Di certo, quella non era una Panda. Insensibile alla nebbia, prima delle sette del mattino, il nostro era già al volante. L’ho incontrato per strada, a cinque minuti da casa, andando al lavoro. L’ho incrociato mentre inseguiva un fagiano. In retro.
Svoltato a sinistra subito dopo aver superato il cimitero, ho visto subito quell’auto grigia: non ne avevo incontrate molte in quei pochi chilometri che mi separavano da casa. L’avevo vista avvicinarsi a velocità moderata alla curva, rallentare e fermarsi, per poi inserire la retromarcia e tornare – lentamente – sui suoi passi. Con le idee ancora non troppo chiare, mentre mi avvicinavo mi chiedevo il perché di quella originale decisione. Avanzando, cercavo una spiegazione: pochi secondi e la soluzione al mistero si era presentata da sola, davanti ai miei occhi, proprio sulla mia strada. Fermo, imbambolato, impietrito nel bel mezzo della carreggiata, un fagiano mi fissava con l’aria di chi davvero tanto traffico non se l’aspettava: evidentemente disorientato, doveva essersi perso. Messo alle strette dalle due automobili poi, spaventato dall’improvviso cambio di direzione o dal rumore nuovo dell’auto, mentre mi avvicinavo aveva preso ad incamminarsi verso il campo al lato della strada: lasciava l’uomo col cappello con l’amaro in bocca e me con una storiella da raccontare arrivata al lavoro.
Fagiano e persecutore avevano interrotto i pensieri insistenti di un freddo lunedì mattina. Sveglia da quasi due ore, non ero riuscita a pensare ad altro. L’acqua del rubinetto in bagno, il dentifricio, il mascara, lo yogurt, il caffè, i caloriferi mai troppo caldi, il coniglio da liberare e nutrire, il mio ragazzo da svegliare – per poi telefonargli una volta arrivata e assicurarmi che non avesse richiuso gli occhi – prima di uscire, la borsa, i libri, il cellulare, le chiavi della macchina, le scarpe, tutto sembrava dirmi la stessa cosa: evidentemente non ha mai pensato di morire.
La sera precedente, la sera di una domenica che era seguita a un sabato sera pesante, con gli occhi pronti a chiudersi avevo terminato il libro iniziato qualche giorno prima. Dovevo finirlo, mi ero ripromessa, per chiudere la settimana e iniziarne uno nuovo il lunedì. Veronika decide di morire, un romanzo veloce di Coelho di qualche anno fa, prima del grande successo, prima dell’inflazione. La storia di una bella ragazza che, stanca di annoiarsi, già a pagina nove decide di uccidersi. Salvata per caso, si risveglia in una clinica per disturbi mentali di Lubiana dove stringe bizzarre amicizie e riscopre la curiosità dimenticata, conosce l’amore e rivive le sensazioni che le mancavano da tempo. Senza mai dimenticare però che aveva deciso di morire: lo aveva voluto lei e ora il suo cuore indebolito dal colpo non avrebbe retto più di qualche giorno. Veronika non muore, i medici le auspicano una fine imminente sperando che torni a desiderare la vita, sperando che ricordi i piaceri che aveva scordato, per metterla alla prova e monitorare le sue reazioni. Per guarirla, disintossicarla dal vetriolo, il veleno della depressione, dell’amarezza, della follia. Veronika non muore, guarisce Veronika: decide di morire e per questo guarisce, grazie all’atto estremo, ai medici e alla provvidenza.
«Bleah». Il commento alla mia lettura, un commento nero su bianco. «Che stai facendo?» «Leggo. Coelho». «Bleah». Inflazionato l’autore Coelho e per questo visto con diffidenza da chi della lettura, e della scrittura, ha fatto passione, lavoro e ambizione. A dire il vero, io di Coelho non avevo mai letto nulla. Ammetto – e avvaloro la tesi del logorio da libreria – di aver però regalato, tra Natali e compleanni, almeno una dozzina di romanzi dell’autore brasiliano, proprio «per andare sul sicuro». Capisco quindi, capisco la reazione e un po’ la condivido, ma quel pensiero inevitabile si era fatto strada in me a passo ben più rapido di quello del fagiano impaurito: evidentemente non ha mai pensato di morire. Evidentemente non ha mai creduto di morire, non ha mai deciso di provarci, a morire. Io nemmeno in realtà: non ci ho mai provato, credo mi sia mancato il coraggio. Credo sia quello che manca a molti. L’ho sentita vicina però la morte, imminente e inevitabile. L’ho sentita alitarmi sul collo. Visionaria io. Più di una volta, in pochi mesi. Nei mesi in cui quel libro mi è stato regalato, nei mesi in cui stava sulla mia scrivania e non mi decidevo ad aprirlo. Nei mesi in cui mi è stato regalato, e non certo per andare sul sicuro. L’ho sentita vicina, come un richiamo, un’attrazione. Un desiderio di provarci che non è stato abbastanza forte, non è arrivato abbastanza vicino. Un desiderio allontanato, non da me, forse da chi me l’aveva regalato quel libro da usare come uno scudo, per proteggermi. Da lasciare sulla scrivania per un po’, tanto come scudo funzionava lo stesso. Certo è che quel pensiero, quell’attrazione, io l’avevo conosciuta. Conoscenti, non certo amiche, non confidenti: qualche parola ogni tanto però l’abbiamo scambiata.
Si vede che non ha mai pensato di morire, avevo pensato leggendo quel messaggio; senza fargliene una colpa, senza prendermela, anzi. Sicura però del mio pensiero. Il pensiero con cui ero andata a letto quella sera dopo aver chiuso il libro e che mi aspettava al mattino. Il pensiero che aveva accompagnato il mio viaggio fino all’incontro col fagiano e il suo inseguitore. Lo stesso pensiero che era seduto vicino a me, al posto del passeggero, mentre mi allontanavo da quella coppia improvvisata e ormai separata da quella stessa provvidenza: lo stesso che non mi abbandonava, sfuocato a momenti dai pensieri che il lunedì al mattino presto sembrano sempre macigni. I kiwi, non ho comparato i kiwi, devo ricordarmene oggi: domattina mi servono, non posso iniziare una giornata senza kiwi. Sono già in coda, per fortuna parto presto: troppo tempo per pensare, soprattutto di lunedì, ma almeno non arrivo tardi. Per fortuna parto presto. Guardo la fila di auto dietro di me nel retrovisore, guardo i miei capelli. Mi distraggo, mi distraggo sempre, mi specchio mentre guido: e se li tagliassi ancora? Mesi per decidermi a dare un taglio netto, sopra le spalle, e ora li vorrei ancora più corti. E come la inizio la lezione? Mi ero preparata così bene ieri, un’entrata trionfale: la prima ora sarebbe volata e ora non ricordavo più nemmeno di che avrei dovuto parlare. Sarà una lezione di grammatica di quelle che si trascinano ed escono male? Il lunedì mattina poi, è delicato il lunedì mattina, nessuno è mai completamente sveglio. E poi, poi ho mangiato troppo in questo fine settimana: finite le lezioni vado in palestra, non torno a casa. Spinning? Ma inizia tardi, che faccio? E poi, poi devo scrivere a Chiara, non le rispondo da due giorni, dobbiamo vederci. Tra poco si sposa e finisce la vedo già con la fede al dito. La coda è finita, un tir ogni tanto. È lunedì mattina, hanno ripreso a circolare. Un sorpasso, due. Il mio, quello di qualcun altro. Ma hanno tutti fretta stamattina? Hanno tutti fretta, è lunedì. Ma è Tozzi alla radio? Buon segno. A me piace Tozzi: ridono quando lo decanto, a me piace. È sincero, è semplice. «Piccola Eva, Eva, il nostro amore è l’ultima astronave, Eva». La zucca, devo comprare anche una zucca. Quasi arrivata, pochi minuti. Avrò tempo per rivedere la lezione? Forse mi torna l’ispirazione; penserò dopo al resto. Ma chi prendo in giro? Penserò a tutto contemporaneamente e farò un gran casino. L’ultimo stop, poi sono in paese. Che freddo farà una volta scesa dalla macchina? Stop, mi fermo. Qui la mia Provinciale ne incrocia un’altra, l’ultima prima del centro. A volte aspetto minuti e minuti prima di riuscire ad uscire da questo stop. E questo? Un trattore, da destra. E la fila di automobili in coda dietro di lui da chissà quanto tempo. Aspetterò una vita, quasi apro subito quel libro. Mi volto. Coda dietro di me, ma non posso andare. Suonano. Devo svoltare a sinistra. Auto, auto, tir. Suonano ancora. Libero di là, dopo questo vado. Ora vado. Vado. E questa? Ma che fa? Superava? Stava superando proprio qui, a pochi metri dallo stop? Superava un tir mentre il tir passava l’incrocio? E questa? E ora? E ora? Sbam.
L’ho chiamata, me la sono cercata. L’ho voluta portare con me, anche se mi era mancato il coraggio. Sembrava essersene andata e invece era lì, era lì ad aspettarmi. Me la sono cercata. Niente più kiwi. Nessuna lezione da rivedere, nessuna storia da raccontare. Niente spinning e, ok, i capelli restano così. Nessuno saprà del fagiano. Congratulazioni Chiara, te le faccio qui. «Piccola Eva, Eva». Chi lo sveglierà domani? Darà da mangiare al coniglio? Sposterà quel libro dalla scrivania? «È ancora là. Piccola Eva, Eeeva». Sbam.