Laureen osservava la mamma incantata. La vedeva seduta sulla sedia a sdraio intenta a leggere un libro, ma poi dopo un po’ alzava il volto e lo faceva andare là, oltre il mare.
Il papà era andato a prendere il giornale in edicola ed il caffè: ogni estate era sempre così, lei rimaneva in spiaggia a sistemare la borsa frigo, gli asciugamani sul lettino, portava la borsa con dentro la crema solare, le infradito e la merenda per lei, per Laureen, e lui invece andava a fare le commissioni, telefonava a casa per vedere se sua madre si fosse occupata del cane, dei fiori, raggiungeva la panetteria per farsi fare il caffè (lì lo facevano più buono rispetto a quello del bar, e costava meno), comperava il quotidiano ed infine le raggiungeva in spiaggia, mentre la moglie di tanto in tanto si perdeva in momenti come questi, dove in silenzio guardava il mare o quello che c’era dopo, un sogno forse, una vita che avrebbe voluto vivere ma non l’aveva fatto, una piccola distrazione, una riflessione banale (che preparare stasera per cena?).
Doveva fare i compiti, s’era portata dietro i libri di italiano, di matematica ed i quaderni. Avrebbe cominciato con italiano, la materia che tra le due più preferiva.
Aprì il quaderno – tutto rosso, lo aveva scelto apposta, amava il rosso ed amava la materia – e incominciò a scrivere, a raccontare le sue vacanze estive. Anche se erano appena cominciate.
Con la scrittura esitante, infantile, confusionaria, raccontò delle passeggiate serali (dopo cena sicuramente la mamma avrebbe voluto andare da qualche parte, magari sul lungomare a camminare mentre mangia una piadina salata), delle nuotate in acqua (che sicuramente fra un’ora o due – quanto mancava per la fine della digestione? – avrebbe fatto, coi braccioli gialli, nuovi, comprati due giorni fa in edicola, come inserto di una qualche rivista femminile), delle conchiglie raccolte, del rumore che le onde fanno infrangendosi sugli scogli (forse non ce l’avrebbe fatta, lei come nessun altro, a raccontarlo a parole, a dire come fosse, quel rumore), la sabbia fine fine, ancora più fine dello zucchero.
Di tanto in tanto ritornava con gli occhi alla madre, all’indice della sua mano che faceva da segnalibro quando chiudeva e poi riapriva il libro, a come si spostava i capelli dietro l’orecchio, al pareo azzurro che svolazzava appena un po’ di vento tirava. Alla sua sinistra c’era una scogliera su cui due bambini giocavano, chinandosi a raccogliere e poi a posare qualcosa: un secchiello, forse; delle conchiglie, una paletta. Una mamma urlava in lontananza di fare attenzione, state attenti a non cadere, mi raccomando Roberto, tu che sei il più grande, ammoniva la voce, ammoniva la madre a metà spiaggia, in piedi, con una mano sulla fronte per vedere i figli, per impedire al sole di accecarle la visuale.
Ma sua madre era totalmente assorta, passiva dei suoi pensieri, nemmeno le urla della mamma dietro di lei, l’istinto materno di seguire quella voce, vedere che avesse da urlare, guardare quei bambini sulla scogliera che sicuramente si stavano agitando, stavano facendo qualcosa di pericoloso, sennò perché la mamma avrebbe urlato?
No, niente. Aveva il libro in mano, chiuso; non leggeva. Stava là a guardare. Semplicemente stava, semplicemente era.
Il padre di Laureen finalmente arrivò in spiaggia. Alto, con le ciabatte ai piedi ed una magliettina bianca, completamente bianca; un quotidiano sottobraccio, due caffè in mano, nei bicchierini di carta, con la carta stagnola a mo’ di coperchio. “Sono ancora caldi”, disse, senza salutarli, come d’abitudine, come se non fosse necessario salutarsi perché nessuno se n’è andato, e se non vai allora non ritorni.
Laureen sorrise al padre, che ricambiò; poi riprese a scrivere.
“Hai sentito? Ci sono i caffè”, fu la voce di lui, di nuovo. La madre di Laureen si voltò, lentamente, un movimento lento e triste, la bambina non avrebbe saputo definirlo altrimenti se non proprio così, lento e triste.
Si lasciò alle spalle qualunque cosa ci fosse lì, oltre il mare, tutte quelle cose che la bambina aveva supposto, un sogno, una vita, una distrazione, una banale riflessione, e poi ritornò alla normalità, alla vita vera. Abbandonò il libro sul lettino senza mettere il segnalibro, chissà come avrebbe fatto a riprendere il filo del discorso, si domandò Laureen.
Poi la mamma guardò i libri, il quaderno dalla copertina rossa, la penna dal tappo rosicchiato; e la bambina, la sua bambina. Le sorrise: “Un giorno anche tu lo prenderai, il caffè, ma ora è troppo presto”.