Fa un caldo che non si respira, le tapparelle sono abbassate sulla città vuota, ma l’afa si infiltra dappertutto e io mi sento come se stessi per svenire. In mutande e canottiera su una vecchia sedia di quelle impagliate che oggi non le fanno più, e i calzini, perché i piedi nudi non sono mai riuscito a tenerli. Ora avrei detto “si muore di caldo, eh, Lucia?” e lei, scocciata, avrebbe risposto “è l’umidità”. Invece niente, allora forse questo caldo non esiste, come la macchia sulla mia canottiera. Me la sono fatta oggi, arrotolando gli spaghetti con il sugo e il tonno, una delle poche cose che so cucinare. Lucia non m’ha sgridato, non si è arrabbiata, non mi ha detto che l’aveva appena stirata. Allora questa macchia non esiste. Non fa caldo. Lucia non c’è più. Dopo quarantasette anni insieme semplicemente è morta. Avrebbe potuto andarsene dopo una lunga malattia, essere coinvolta in un incidente e poi rimanere in ospedale per qualche mese, dare degli avvisi, avvertirmi, invece no; Lucia se n’è andata di notte e io mi sono svegliato una mattina di fianco al suo cadavere. Mi sono tanto arrabbiato, avessi potuto le sarebbe toccata una sfuriata epica, come quella volta che Cinzia, la nostra prima figlia, ha lasciato l’università e lei non me l’ha detto. Sciagurate mamma e figlia, io sono il padre o no? E invece è morta così, all’improvviso. Non è questione d’amore, né d’affetto, è che dopo una vita insieme io non no so che farmene della vita da solo, e mi annoio. Soffro, certo, ho pianto tanto, ma adesso il mio problema principale è che sono vecchio, stanco e mi annoio. Ah, e fa pure caldo.
Il telegiornale dice che gli anziani –vecchi non si dice più- non devono uscire nelle ore di punta, io attendo si faccia sera, ma questo agosto non vuole finire, diviso in giorni lunghissimi in cui non arriva mai il buio. Cinzia e Remo, l’altro mio figlio, mi volevano portare in vacanza con loro, ma io il mare non lo sopporto e poi lo so che non erano contenti, ma sono dei bravi figli e me l’hanno chiesto. Mi vogliono bene ma se potevano scegliere morivo io e restava Lucia, magari fosse andata così. Un marito non deve sopravvivere alla moglie, lei è capace, lui no.
Mi infilo una polo col taschino sulla canottiera sporca, che tanto non la vede nessuno, mi metto i pantaloni e le polacchine e, visto che il sole sembra dare un po’ di tregua, mi dirigo ai giardinetti. Che a chiamarli giardinetti ci vuole coraggio: fontanelle divelte, ragazzini imbizzarriti che fumano e gesticolano, erba secca e cacca, cacca ovunque. Mi siedo su quella che fu una panchina e guardo i piccioni, non gli do da mangiare perché mi fanno schifo e mi abbandono, chiudo gli occhi per un po’, in queste vuote ore inutili e poi, quasi mi viene un infarto. Un negro –che Cinzia dice che non lo posso dire negro, ma lei sta al mare- si siede proprio vicino a me, ‘sto maleducato, io mi metto una mano sul portafogli e me lo stringo forte contro la coscia, e quello mi guarda insistente. Poi sorride. È tutto sudato, sporco, puzza di negro sudato, sono sicuro che mi vuole rapinare. Invece sorride di nuovo, mi guarda di nuovo, se ne va.
E agosto non vuole passare, mi sono spaventato ieri è vero, ma non posso stare murato a casa tutto il giorno, se c’era Lucia era diverso, la sentivo camminare di là, ora c’è troppo silenzio. E fa caldo. Vado al parco e il negro è là. Arriva e mi fa un cenno con la testa, ho capito tutto: non mi vuole rapinare, è uno di quelli che truffa i vecchi. E no, caro, con me non ce la fai. Tornatene al paese tuo! Si piega sulle ginocchia il negraccio, si stira i muscoli, alza la mano verso di me, mi saluta questo impudente e corre via. Questa scena si ripete tutti i giorni, arriva correndo, mi vede, mi fa un cenno, fa qualche mossa strana, si contorce, mi saluta e corre via. E fa un caldo che si muore, dove corre questo, dico io, dove va? E all’improvviso, un giorno che non viene, scopro che lo aspetto, che attendo arrivi al parco a salutarmi. Sono diventato un vecchio scemo, che vede un negro al parco e si affeziona. Che quelli sono come i primitivi, che se non sto attento mi accoltella. Eppure io lo aspetto. E lui il giorno dopo torna correndo, fa le sue mosse, mi saluta e corre via. Che sollievo. È fine agosto ma fa ancora caldo, oggi vado ai giardinetti prima, il telegiornale ha detto che posso, e io ci vado, perché ho trovato nel cesto dei panni sporchi una camicia da notte di Lucia, e a casa non ci voglio rimanere. Appena arriva lo guardo, dritto negli occhi e lui capisce, e si avvicina. Gli chiedo “dove corri?” dice “mi alleno per la maratona”, e io dico “che maratona?”, “quella di marzo” dice lui. Si alza in piedi, si contorce un po’, mi saluta, stavolta dice “ciao”, e se ne va. Per marzo? Questo è scemo. Si vede che non tiene da fare, sono parassiti questi, vengono qui, ti rubano il lavoro, fanno le rapine, stuprano le donne. Ma restate a casa vostra, dico io, che qua di guai noi ne teniamo tanti. A calci nel sedere li rispedirei io. Ah, se comandassi io, tutto sarebbe perfettamente in ordine e questi non verrebbero proprio a dare fastidio.
Dal primo ciao non ci siamo più fermati, mi saluta tutti i giorni e io rispondo. Tutto qui. Pure con Lucia negli ultimi anni mi dicevo solo buongiorno, ma era già qualcosa. E adesso ho un ciao. A settembre non ci vado più tutti i giorni al parco, però quasi sempre, manco quando Cinzia e i bambini mi vengono a trovare. I bambini mi vogliono bene, e io ne voglio a loro, più che a Cinzia. Dopo la prima volta in cui sono mancato, il negro si è avvicinato e mi ha chiesto “stai bene?”, io ho detto “sì”, ed è stato strano. Significa che il giorno prima mi aspettava pure lui? E continuiamo così, io, lui, i piccioni e le cacche. Tutti i giorni, poi non lo so perché, forse l’ho guardato troppo, forse ci pensava da prima, non lo so, ma si è avvicinato e, dopo le consuete mosse, ha detto “vuoi venire con me?”, io l’ho guardato come fosse un piccione che aveva appena ruggito e ho risposto solo “non ce la faccio a correre”,
“Allora camminiamo”.
Abbiamo cominciato così, non ci diamo nessun appuntamento, io lo aspetto al parco, lui arriva e camminiamo. Oggi mi ha persino portato delle scarpe da ginnastica, ha detto solo “servono” e io, ubbidiente come con Lucia, le ho messe. Mi vergogno, ma sono comode. E camminiamo, certo solo se non piove, almeno io lui non lo so. Si chiama Khalil, questo gliel’ho chiesto, ma nulla più. In verità stiamo insieme solo per poco, una ventina di minuti, poi torniamo indietro, lui mi lascia di nuovo in quel fetente di parco e scappa via. Solo una volta gli ho chiesto una cosa “negro è una brutta parola?” e lui ha detto “sì, dici nero”. Lui ora è il nero, mi ha regalato le scarpe, sarebbe maleducato se lo chiamassi negro, visto che è una parola brutta. Che poi io lo chiamo solo in testa, e solo Lucia mi sapeva leggere pure i pensieri, però non posso avere pensieri maleducati nemmeno ora che quell’egoista se n’è andata all’improvviso, non so perché. Che brutta cosa ho pensato, ma mi manca, troppo.
Sono due mesi che camminiamo, mi aspetta sempre anche se sono lento, anche se gli faccio perdere tempo, anche se lo chiamavo negro, anche se non ho detto abbastanza a Lucia che era importante, anche se non mi conosce. Mi dà mezz’ora della sua vita, e io non gliel’ho nemmeno chiesto. “Tu mangi?” gli ho domandato un giorno, perché penso che è nero e quindi è povero, “sì che mangio”, “ah, bravo” ho detto io, perché ho capito che stavolta l’ho offeso. Ma lui è tornato lo stesso il giorno dopo, e ancora, e ancora. Adesso piove spesso, e poi fa freddo. In uno dei pochi giorni asciutti gli ho portato un regalo pure io, una felpa, che magari dorme per strada. Ho chiesto a Cinzia di comprarla e quella mi ha fatto tante domande che mi sono arrabbiato. Mi trattano come un cretino, neanche per una felpa sono capace a decidere. Se c’era Lucia la comprava lei al mercato, o forse no, perché se c’era Lucia io al parco non c’andavo, rimanevo a casa, a sentirla lavare i piatti mentre canticchiava una lacrima sul viso, e io mi sarei irritato, che non stava mai zitta. E allora camminiamo, tutte le volte che si può, e io mi sento giovane e forte come non mi sentivo da anni, i primi giorni no, ma adesso mi sembra di avere tanti anni di meno. E poi il freddo comincia a scemare, le giornate sono un poco più lunghe e, un pezzetto qui, uno lì, ci siamo pure raccontati un poco delle nostre vite, ma solo un poco. Io gli ho raccontato di Lucia, lui m’ha detto che è solo, ha aggiunto il nome di una città africana che non mi ricordo. A noi è sembrato bastasse così, che i due nomi che ci siamo scambiati fossero tutto il nostro mondo. Poi ieri ha detto “domani c’è la maratona, lo sai?” “che maratona”, “quella per cui ci alleniamo”, “noi ci alleniamo?”, “dici di no?” ”noi camminiamo”. Il giorno della maratona è arrivato e io ho deciso di andarci, per curiosità, lui stava lì, tutto nero, che poi a pensarci non è che poteva essere non nero. Ed è cominciata, questa maratona, io sono durato poco, qualche chilometro, ma che soddisfazione, lui no, lui è giovane e forte, lui l’ha corsa tutta. Io ero orgoglioso da morire ed ero pure felice, come prima che morisse Lucia. Solo che adesso non lo so che succede, forse non lo vedo più. Mi avvicino e quasi quasi glielo chiedo, forse glielo chiedo, non glielo chiedo. Dico solo “bravo” e lui, come sempre, dice solo “grazie”. Prendo coraggio “e domani, domani ti alleni lo stesso? “, “no, domani no”, è finito, è tutto finito, di nuovo solo in quella casa senza Lucia. “Ci vediamo domani”, mi dice all’improvviso, quasi trasecolo, quasi sorrido “ma tu hai detto che non ti alleni” dico io, “no”, dice di nuovo lui, e io, che non ci sto capendo molto, chiedo “e allora?” e lui risponde “allora camminiamo”.