Nel dubbio tra attesa e capitolazione perdeva sempre. L’attesa, si sa, stimola visioni di ogni tipo e Edoardo si considerava un uomo troppo pratico e spicciolo per dare spazio all’ immaginazione. E poi la pazienza non era roba per la sua età. Questo significava che ancora una volta sarebbe andato a riprendersi Clara per chiederle di tornare a casa o le avrebbe telefonato; non subito, tra un po’, quando la rabbia cominciava sbollire.
Non era facile, Edoardo fremeva, fosse stato per lui avrebbe telefonato immediatamente, ma l’esperienza gli aveva insegnato che era preferibile controllare il suo impulso, almeno per qualche ora. Si versò un bicchiere di brandy e si avvicinò alla finestra. Era un aprile piovoso e spettrale, il sole primaverile faceva il prezioso e la pioggia, dal primo mattino, non dava segni di cedimento. Edoardo sorseggiava il suo brandy con la consapevolezza che da lì a poco ne avrebbe preso un altro e poi un altro ancora. Gli piaceva guardare la pioggia battere sui vetri, ora si sentiva già meglio: le cose si sarebbero aggiustate. Ma un brivido di paura gli trapassò il corpo quando si accorse che rannicchiato in un angolo del giardino, sotto l’albero di gelso, c’era un topo. Aveva la coda lunga e il pelo nero e irto; non si muoveva e il muso puntato verso il cielo faceva pensare che aspettasse la fine della pioggia. Edoardo odiava i topi, temeva l’orrore che quei corpi invertebrati trasmettevano eppure continuò a fissarlo. Da quanto tempo quel topo era lì ad aspettare che la pioggia finisse? Edoardo si allontanò per versarsi il secondo brandy, quando ritornò alla finestra il topo era ancora sotto il gelso, la sua coda adesso gli sembrava più lunga, disgustosamente lunga. Il diaframma gli si strinse in un moto di nausea. Si versò il terzo brandy e continuò a osservarlo. C’era qualcosa di morboso che non permetteva a Edoardo di levare gli occhi da quel topo. E al tempo stesso qualcosa di desiderabile nella vista di quel topo. Edoardo forse avrebbe voluto essere quel topo. Lo ripugnava ma al tempo stesso era commosso dall’impassibilità dell’animale: un gomitolo di pelo nero, immobile, in attesa che la pioggia finisse.
Probabilmente anche per Edoardo era arrivato il momento di fermarsi, di frenare l’impulso, di lasciar perdere una storia arrivata al capolinea. Perché non arrendersi davanti all’evidenza? La differenza di età già bastava per rinunciarci. E il brandy, i capricci di Clara, i soldi che non erano mai abbastanza non aiutavano. Forse era meglio non cercarla più e aspettare, paziente come quel topo, che le cose facessero il loro corso naturale.
Un fremito gli trapassò lo stomaco, Edoardo aveva paura. Si allontanò con uno scatto dalla finestra e alzò la cornetta del telefono. Andassero tutti al diavolo, Clara doveva tonare a casa!
Bevve un altro brandy prima di comporre il numero, ma subito buttò giù, con violenza, la cornetta: avrebbe telefonato Clara solo quando il topo sarebbe andato via; quando fuori avrebbe smesso di piovere.
Si versò un altro brandy e si affacciò a dare un’occhiata: non pioveva più e il topo era scomparso. Edoardo guardò di nuovo la cornetta del telefono e con una forza che non credeva di avere riuscì a volgere lo sguardo altrove: non doveva farlo. Era meglio andare in giardino e mettersi sotto il gelso, rannicchiato accanto al tronco, come quel topo. Era certo che, prima o poi, Clara sarebbe passata da lì. Lui l’avrebbe aspettata; per ora era meglio non cercarla.
La pioggia riprese a battere e Edoardo si addormentò sotto l’albero di gelso.
Quando Clara tornò per prendere le sue valigie non passò per il giardino.
Era entrata dalla porta posteriore, aveva preso i suoi vestiti dall’armadio lentamente, come chi non desidera altro che rimetterli a posto.
Ma era scappata via, subito, quando aveva sentito lo squittio di un topo provenire dalla cucina.