Ero di ritorno dalla solita visita medica. La mammografia di ogni anno. Ogni volta che prendo il treno per andare dallo specialista a Milano penso al mio ex marito e alla sua fissa del mio seno. Un’ottava, porto un’ottava e non c’ha mai creduto. “Non hai il seno così enorme”, mi diceva, eppure gli rispondevo che portavo un’ottava, gli facevo persino vedere la taglia del reggiseno.
Vabbè.
Ero alla fermata della metro Lotto. Insieme a me aspettavano delle ragazzine urlanti: avevano appena visto un concerto e tutto era stato meraviglioso, il cantante aveva coinvolto il pubblico, aveva saltato ovunque. Vicino al cartellone con la piantina della metropolitana c’eri tu. Una camicia blu, dei pantaloni bianchi fino all’inizio delle caviglie e delle normalissime scarpe grigie, leggere, estive. I tuoi capelli tagliati di fresco, il volto un po’ sudato, occhi scuri. Guardavi il telefonino con impazienza, con quell’impazienza che non è attesa di un messaggio, ma una leggera ansia. Subito ho pensato: deve prendere il treno. E sapevo che l’unico treno che c’era a quell’ora, che di lì a poco sarebbe partito, sarebbe stato il mio. Direzione Torino Porta Nuova.
Ero stranamente emozionata, mi piaceva vederti impaziente, così giovane chissà dove saresti andato, se a casa ti avrebbe aspettato qualcuno. Dovevamo prendere lo stesso treno eppure io ero perfettamente tranquilla. Nonostante quella fosse l’ultima corsa. Nonostante a Milano non conoscessi nessuno che avrebbe potuto ospitarmi in caso fossi rimasta lì bloccata.
In metro ti guardavo, mentre seduto inviavi sms a chissà chi, poi un’occhiata all’ora, un’altra a chi avevi attorno, una a me e poi di nuovo al telefonino. Mi guardavi come nulla fosse, una tranquilla signora sul pullman, incontravi i miei occhi per qualche secondo mentre io ti fissavo per minuti.
Una volta arrivati in stazione (eri sceso alla mia stessa fermata per il cambio della metro, a Cadorna) mi sono messa dietro di te, ho finto di cercare qualcosa in borsa perché mi passassi davanti. Ho visto il tuo sedere sodo, l’impazienza scomparire dal volto. Poi ti ho sentito dire: “Ogni volta! Che palle!”. Ti riferivi al ritardo di venti minuti che il tabellone recitava. Perché così arrabbiato? Perché la tua fretta era stata vana? O perché avresti tardato per andare…dove?
Continuavi ad ignorarmi, nonostante accelerassi per mettermi al passo tuo, per passarti davanti e guardarmi con noncuranza dietro, fingendo di cercare chissà cosa. All’improvviso mi sono stancata del tuo ignorarmi. E mi sono resa conto che non avevo fatto il biglietto, che m’ero troppo deconcentrata dal tuo abbigliamento così particolare – quei pantaloni aderenti, i peli nelle tue gambe che si indovinavano da sotto l’elastico, le caviglie nude che ti conferivano una sensualità senza paragoni.
Sono scesa nel piano di sotto, ho fatto il biglietto e poi mi sono avvicinata al binario 4. Tu non c’eri. Insomma, dov’eri? Avevi sbuffato per il ritardo, dovevi per forza prendere il treno diretto a Torino!
Sono salita alla ricerca di un posto in cui sedermi, ce n’erano mille vuoti ma io ne cercavo uno che mi aggradasse. Poi ti ho visto. Da dietro. Ho riconosciuto i capelli, il colletto blu della camicia e con quanta più noncuranza possibile mi sono seduta nel posto adiacente al tuo.
Ti ho guardato tutto il tempo domandandomi se fossi ridicola, alla mia età ascoltare la musica sull’iPod, forse sarebbe stato meno strano vedermi con un vecchissimo walkman, ascoltare Baglioni o Venditti. Tu niente. Ma sì, qualche occhiata, per carità, ma capisci che a me non bastava?
Se solo avessi potuto aprirti un po’ la camicia, accarezzare le tue gambe, vedere se i tuoi polpacci erano belli grossi come piacciono a me… Ero convinta che quel profumo che sentivo fosse il tuo, mischiato un po’ al sudore, qualcosa di sensuale ma anche di così ingenuo. Saresti potuto essere mio figlio che torna a casa col sudore sul collo ed il profumo dell’Adidas schizzato un po’ ovunque per nascondere l’odore di sigaretta. Sono riuscita a sentirmi vecchia ed ignorata davanti alla tua gioventù, al tuo guardarmi come nulla fosse.
Quando ti sei addormentato ho smesso di fissarti. Ho preso un libro dalla borsa e ho cominciato a leggerlo. Arrabbiata, o forse nemmeno. A volte buttavo una sguardo sulla tua testa ciondolante, la bocca leggermente aperta, ma mai che riuscissi ad intravedere in te un difetto, un neo.
Ti sei svegliato di soprassalto quando il treno si è fermato a Magenta, di colpo gli occhi si sono aperti, ti sei alzato in piedi e ti sei guardato attorno, sperduto, dove sono, dove mi trovo, dove s’è fermato il treno? Avrei voluto dirti – avrei potuto farlo – dove fossimo ma poi ho pensato: no, vaffanculo, trovatela da solo, la risposta.
Quando il treno è ripartito tu sei uscito dallo scompartimento. E ti sei diretto verso le porte. Ho subito pensato che non avessi fatto il biglietto, oppure che lo avessi fatto fino a Magenta e che per evitare il controllore avessi optato per il nasconderti in bagno.
Chissà dove sei sceso…
Il treno viaggiava e viaggiava, ed io guardavo la sagoma del tuo corpo sul sedile su cui pochi minuti prima dormivi. Mi sarebbe piaciuto ci fosse stato anche solo un dialogo, qualcosa, uno sguardo più profondo, un sorriso, un saluto.
Non so nemmeno come concludere questa piccola lettera. Sapessi il tuo nome saprei anche solo da dove partire, raggiungendo Magenta o Santhià (magari sei sceso là) e iniziando a chiedere di te, descrivendoti. E invece no, niente.
Vaffanculo.