Io non ci trovavo niente di poetico nel degrado in cui abitavo, però non glielo dicevo. Ero felice che Marta ammirasse qualcosa che mi apparteneva, mi faceva sentire importante.
Pensavo davvero di poter cambiare, ma poi ogni tanto mi capitava sotto gli occhi la ferita che avevo sulla spalla e ricordandomi chi ero sentivo un nodo in gola. Io non ero come Marta. Non avrei mai potuto essere come lei, nemmeno in un milione di anni. Aveva fatto un bel lavoro, Alfredo. Aveva fatto in modo che io non potessi dimenticarmi che, come lui, certi istinti ce li avevo nel sangue.
E’ il 2012 quando Valentina D’Urbano pubblica il suo romanzo “Il rumore dei tuoi passi”: la storia di un’amicizia che diventa amore, di due ragazzi, Beatrice e Alfredo, sullo sfondo di una città di cemento della fine degli anni ottanta. Il contesto è devastante, le loro vite devastate: una micro realtà che sfugge ad ogni controllo di logica e di giustizia, dove la difficoltà dell’esserci sfocia nell’impossibilità di andare via. I due amici-gemelli sono ancorati a quel cemento di nulla che entra dentro i loro corpi, dentro le loro menti e ne contagia i pensieri, lo stile di vivere, le ambizioni. Beatrice e Alfredo vivono nella dualità di voler andare via, di voler cambiare il loro destino e la consapevolezza che il posto dove sono cresciuti, le esperienze che hanno fatto, saranno per sempre un deterrente alla libertà perché loro sono il prodotto di quel posto. Alfredo, tra i due, è quello che vive una situazione di maggior disagio: un padre alcolizzato e violento che sfoga le sue delusioni di una vita che gli ha portato via anche la moglie, suo figlio, causando futuri traumi al ragazzo. Alfredo trova conforto nella sua amica, in una Beatrice comprensiva e onnipresente, la cui realtà familiare è più stabile. Crescendo, la loro amicizia si trasforma in amore, un amore selvaggio, violento, asimmetrico: da un lato Alfredo è dipendente dalla ragazza, che sembra essere il suo unico punto di riferimento; dall’altro, Beatrice è ossessionata dall’idea che il giovane deve appartenerle, vuole l’esclusività del loro rapporto amoroso, l’esclusività della loro amicizia. Il poter controllare la vita di lui, il cercare di tirarlo fuori dal vortice della droga, altro male che attanaglia Alfredo, sembra essere lo scopo della sua vita. Come se mettere ordine nel caos del compagno, l’aiutasse a ordinare anche la sua vita.
Non lo so, forse era l’ambiente che ci aveva prodotti. Forse ce l’avevamo nel sangue. Forse era la gente che frequentavamo, la noia, la mancanza di obiettivi. La consapevolezza di non poter essere mai niente di diverso, la presa di coscienza che saremmo stati così per tutta la vita. Fuori si susseguivano gli anni e il mondo cambiava. Dentro, noi, rimanevamo fermi. Non ce l’avevamo un motivo per vivere, non sapevamo darcelo. Lo facevamo e basta.
Emarginazione, possessività, inerzia, morte. Sono questi i temi fondamentali del primo romanzo della D’Urbano. Non tutto è perduto, sembra essere il messaggio della scrittrice; diversamente non avrebbe sentito l’esigenza di parlare di questi temi, di farli suoi, di far raccontare la storia ad una Beatrice, così dentro a quella realtà da trascinarci con violente verità il lettore stesso. Come sul palco di un teatro, i personaggi hanno uno sfondo fisso( opaco e grigio quello di questo romanzo, una periferia degradata ai confini con la città) : loro si dimenano ma restano lì su quella scena, senza uscirne mai ….