Era pericoloso
lasciarle mani franche
senza ferri avvitati intorno ai polsi
quando rivide spazio,alberi,strade,
al cimitero dove
portavano suo padre.
Dieci anni già scontati,
ma contarli non serve,
l’ergastolo non scade ,
più vivi più ci resti.
Era pericoloso
permetterle gli abbracci,
e da regolamento
è escluso ogni contatto.
Era pericoloso
il lutto dei parenti,
di fronte al padre morto
potevano tentare
chissà di liberare
la figlia irrigidita,
solo per pareggiare
la morte con la vita.
Spettacolo mancato
la guerriera in singhiozzi,
ma chi è legato ai polsi
non può sciogliere gli occhi.
Per affacciarsi,lacrime e sorrisi,
debbono avere un pò di intimità
perchè sono selvatici,non sanno
nascere in cattività.
<<Non si è più stati insieme,vero,babbo?
Prima la lotta,gli anni clandestini,
neppure una telefonata per Natale,
poi il carcere speciale, la tua faccia
rivista dietro il vetro divisorio,
intimidita prima, poi spavalda
e con una scrollata delle spalle
dicevi: ”muri, vetri, sbarre, guardie,
non bastano a staccarci,
io sto dalla tua parte
anche senza toccarti,
anzi, guarda che faccio,
metto le mani in tasca”
Porta pazienza babbo, anche stavolta
non posso accarezzarti
tra i miei guardiani e i ferri.
Però grazie: di avermi fatto uscire
stamattina,di un gruzzolo di ore
di pena da scontare all’aria aperta>>.
Ora la puoi incontrare
la sera quando torna
a via Bartolo Longo,
prigione di Rebibbia
domicilio dei vinti
di una guerra finita,
residenza perpetua
degli sconfitti a vita.
Attraversa la strada,non si gira,
compagna Luna,antica prigioniera
che s’arrende alle sbarre della sera.
Erri De Luca
Un’esistenza solitaria, rinchiusa per un castigo voluto dal mondo. Memore dei suoi delitti, la protagonista di questa poesia assapora l’isolamento per punizione e viene presentata dallo “scritto del decennio” (come lo definisce il critico Giorgio de Rienzo) come un animale selvaggio tenuto in cattività, imprigionato fuori e dentro di sé.
Erri De Luca descrive nel dettaglio l’immagine di una prigioniera, lontana dal mondo e dal tempo, con una condanna, come l’ergastolo, che rende tutto interminabile, dal dolore per la perdita di un parente, al tormento del tempo che ancora deve passare con le catene. La morte del padre è messa accanto alla sua condizione nel carcere; due vite troncate e finite che nessun anelito libero può risanare.
“Spettacolo mancato
la guerriera in singhiozzi “.
Commovente il richiamo, nella terza strofa della ballata, a ciò che vi è di più istintivo e naturale in ognuno di noi, come il lamento o il pianto, e che è impossibile percepire o emanare in una condizione di schiavitù interiore; come se le nostre lacrime fossero un permesso che ci concediamo per capire che la nostra vita è ancora attiva e in movimento, così come il nostro sorriso. Non esiste confidenza, non esiste nulla di privato, in una prigione non nostra, costruitaci intorno da altri che impediscono che la nostra stasi sia voluta da noi e che sia comunque viva; quest’ultima è un’immagine che contrasta con l’aggettivo “pericoloso” usato nelle prime due strofe, con il quale il poeta tenta di presentarci la prigioniera come un essere che ha compiuto delitti efferati e da condannare nonostante il suo stato di incatenamento mansueto.
Con uno stile asciutto e non troppo dettagliato, Erri De Luca, nella sua ballata dai toni del cantastorie medievale, ci presenta una fotografia immobile e dai colori sbiaditi di un’anima seduta ed immobile che brama la morte, forse raggiunta poi, nell’ultima strofa, come fosse una salvezza e un ritorno a qualcosa di familiare. Troviamo infatti la nostra protagonista in compagnia della Luna, amica malinconica, perché vive una simile esistenza di prigionia immobile e inerme “che s’arrende alle sbarre della sera”.