Di Irène Némirovsky avevo letto l’ultimo suo libro “Suite francese”, fortunosamente scampato alla persecuzione nazista, come invece non avvenne con la sua autrice. Adesso leggo la sua prima opera, “Il malinteso” ed ugualmente mi cattura la sua prosa elegante, l’acutezza delle osservazioni, il perfetto equilibrio nella descrizione dei caratteri e delle emozioni. Il malinteso è la storia di un amore, ma forse no. Lui si chiama Yves, lei Denise; la gioventù, e forse un’oscura voglia di vivere, sono le uniche cose che li accomunano. Per il resto, lui è un modesto impiegato, costretto a vivere di un magro stipendio dopo il tracollo economico della sua famiglia e dopo la prima guerra mondiale, vissuta in trincea, a stretto contatto con l’orrore. Lei invece è una donna già sposata, già madre di una bambina, che conduce una vita un po’ pigra, fatta di giorni tutti uguali e noiosi, in cui l’unica fatica è quella di addobbare la bella casa e spendere i soldi di un marito ricco. I due s’incontrano un’estate del 1924 a Hendaye, in quella regione basca dove il confine tra Francia e Spagna è solo una linea sottile e dove le due culture si fondono in un affascinante mélange. Nell’atmosfera dolce di quella stagione, l’incontro tra Yves e Denise è più che altro un avvicinarsi di anime, rapite dalle dolci sensazioni che mare e cielo e sole sanno regalare. La noia dell’una e la disillusione dell’altro per un breve momento cedono il passo alla speranza di aver finalmente trovato l’approdo dove sciogliere tutte le sensazioni di disagio e di dolore. Ma il malinteso si delinea non appena i due rientrano a Parigi, restituiti crudelmente ai ritmi di tutti i giorni. Denise è innamorata dell’amore, dell’idea totalizzante e pervasiva di questo sentimento.
“…Denise apparteneva alla categoria di donne che concepiscono soltanto l’amore eterno. Si era data senza esitazioni e senza riserve, e perciò si aspettava in cambio lo stesso dono totale di sé, con una fiducia ingenua, assoluta, da bambina quale in fondo era ancora”.
La sua fantasia corre a costruire l’immagine perfetta di un piccolo e delizioso idillio, dove lui e lei condividono passeggiate sui lungosenna, visite ai negozietti di antiquariato, cene in locande di periferia, sotto la complice ombrosità di un pergolato. Ma Yves non ha il tempo né le risorse per condurre uno stile di vita come lei desidererebbe, e la frustrazione per tutti i bisogni inappagati, per la sensazione di non poter essere all’altezza delle esigenze dell’amante lo rende ruvido e scostante, insofferente alle sue insistenti attenzioni. L’attrazione tra i due così si logora, e quello che sembrava un affetto unico ed indissolubile, sconta le pene di un divario sociale ed economico imprescindibile. Come può essere l’epilogo di questa storia? In molti possono prevederlo, ma quello che conta, in questo racconto fatto di tocchi delicati, di assoluta purezza del linguaggio, è la capacità dell’autrice, sebbene all’epoca esordiente, di restituire una descrizione allo stesso tempo impietosa e triste delle disillusioni dei due amanti, con una consapevolezza completamente matura delle dinamiche di relazione tra due persone e di queste due col mondo, con una società che, lo si voglia o no, condiziona i rapporti amorosi, compromettendone la durata. Tra la prima parte, in cui campeggiano i toni poetici di una passione che sboccia, dove ogni preoccupazione sembra placata dai colori della natura estiva, e la seconda, in cui si racconta del ritorno brusco alla realtà, Irène Némirovsky opera una sutura perfetta restituendoci i rapidi mutamenti d’umore, le ansie, i percorsi saltellanti della relazione amorosa, introducendo nel finale il dubbio se, in fondo, anche la felicità non sia altro che un’ esile figura, ritagliata sullo sfondo della sofferenza.