Diversi anni fa, quasi a sfamare i lettori affezionati che attendevano inutilmente, apparve su tutti i quotidiani –e circola tuttora in rete in varie versioni- La Marioneta, una lettera-testamento attribuita allo scrittore colombiano.
Subito la paternità della lettera fu smentita dallo scrittore, creando un vero caso letterario, che si chiuse con un chiarimento tra Màrquez e Johnny Welch, vero autore della lettera. Tuttavia, ancora adesso, nessuna notizia dell’amato Gabo, nessuna parola, nessun nuovo sogno: solo nebulosi comunicati di ordine medico, smentiti e poi riconfermati.
Per questa ragione ho voluto fingere che quella lettera fosse davvero scritta di pugno da Màrquez, in modo da avere l’opportunità di scrivergli, senza finzioni, ovunque si trovi.
Gentilissimo signor Màrquez,
chiedo scusa per il ritardo col quale rispondo alla sua lettera, ma, smarrita tra oceani di parole, l’ho ricevuta solo ora. Me la sono ritrovata sotto gli occhi in una serata di pensieri infelici e ho compreso all’istante che le sue parole erano rivolte a me.
Le scrivo perché dicono di lei che non sia più in grado di ascoltare, o non voglia, ma io spero che la guerra che porta avanti contro il grande nemico la veda tuttora in vantaggio.
Il mondo che forse non intende più ricordare assomiglia sempre più ad un’immensa Macondo: non tutto di capanne di fango, è vero, ma il fango è ovunque.
Ovunque colonnelli che aspettano una pensione, ladri che nessuno fucila e amori stracciati, e padroni di terre e di porcili che stappano champagne per bagnarsi la testa con la spuma. È una Macondo infame, di guerre spietate e plotoni di esecuzione e pochi sogni, e nessun fantasma ad allietarne la vista. Non passa Remedios la bella, non Amaranta.
È una Macondo che non le piacerebbe raccontare, signor Marquez, dove la magia è truffa e la religione peccato; dove ogni uomo pensa di poter guardare un altro dall’alto, solo perché lo vede da un punto di vista distorto. Una distesa di ghiaccio dove ognuno incide il proprio odio e soffia freddo per non farlo sciogliere. E io vedo lei legato al grande tronco di una quercia, né morto né vivo, perso nell’oblio.
È per questo che mi ha lasciato queste parole? Per ricordarmi di sognare forte, di vivere fitto e denso? E di amare parlando d’amore? Voleva ricordarmi che quando la valigia si chiude, quello che conta non è chi c’è dentro, ma tutto il male e tutto il bene che restano fuori, per gli altri?
Ho ricevuto la lettera, signor Marquez, e non dimenticherò. Attaccherò bigliettini agli affetti per non scordarne il nome, funi agli alberi per non farli abbattere. E se è vero che la dimenticanza è la vera morte, lei, sia pur certo, non morirà mai.
Stia bene, comunque sia il bene.
Francesca