Ai tuoi tempi, ai bambini Giapponesi venivano insegnate cose terribili. Venivano loro insegnate bugie della specie più pericolosa. Peggio ancora, gli veniva insegnato a non vedere, a non fare domande. E questo è il motivo per cui la nazione è crollata nel più diabolico disastro della sua intera storia”.
“Forse abbiamo perso la guerra”, Ogata-San lo interruppe, “ma non c’è ragione di imitare le usanze del nemico. Abbiamo perso la guerra perché non avevamo abbastanza pistole e carri armati, non perché la nostra fosse una popolazione di codardi, non perché fosse una popolazione di deboli.
E’ dall’incontro di due culture profondamente differenti, che nasce il primo romanzo di Kazuo Ishiguro, nel 1982.
Caratterizzato da un linguaggio chiaro e sottile, in “Un pallido orizzonte di colline”, lo scrittore giapponese riesce perfettamente a descrivere il bagaglio della sua cultura, le regole silenziose, le severe gerarchie, che regolano i rapporti umani di un emisfero intimamente mutato dalla guerra.
E ancora, più di tutto, la sua è una scrittura attraverso cui si diesegna chiaramente il senso di vuoto, l’incertezza, che il mondo giapponese ha dovuto affrontare nello scontro-incontro con la democrazia Americana e le sue contraddizioni.
La storia è quella di una vedova giapponese, ormai cittadina inglese, Etsuko, che davanti al dolore per il suicidio della figlia si trova a ripercorrere, in una confessione a ritroso, il percorso che l’ha portata ad abbandonare la desolata Nagasaki per cominciare una nuova vita in Inghilterra.
Ishiguro descrive magistralmente i sentimenti di una giovane donna incinta, alle prese con un marito assente e un vecchio suocero ostinatamente legato ad una tradizione che non ha piu radici.
Ma soprattutto, è la tensione che si insinua tra i rapporti dei portagonisti a sovrastare l’intero romanzo. La suspanse tiene alta l’attenzione sulla storia della piccola Mariko, figlia di un’amica, ossessionata dalla visione di una donna misteriosa.
L’enigma si snoderà solo nelle ultime righe, lasciando il lettore sulle spine fino alle ultime righe di un finale aperto all’interpretazione.
La morte, con la sua violenza, richiama alla memoria della protagonista il pallido orizzonte delle colline, l’unico, incomprensibile, ricordo dolce-amaro, che Etsuko conserva della sua Nagasaki, pensiero di una vita che sembra essere lontana nel tempo e nell’animo.
La delicata sensibilità di Etsuko, l’equilibrio con cui vengono descritti i rapporti tra padre e figlio, il cambiamento sociale e i suoi contrasti durante la guerra di Corea: Ishiguro ha la capacità di trasportarci in un mondo a sè stante, permettendoci di comprenderlo.
Non sorprende che, con Salman Rushdie, Kazuo Ishiguro resti uno dei maggiori rappresentanti di un’armonia perfetta, di un linguaggio possibile e necessario che, come il pezzo mancante di un puzzle, permette la compensione di mondi distanti e divergenti.