Irene conduce una vita piana, fatta di un marito avvocato che le vuole teneramente bene, due figli che crescono sotto la supervisione costante della governante, passeggiate quotidiane in città. Si lascia sedurre da un giovane pianista opponendo una quasi nulla resistenza, senza provare né attrazione fisica o intellettuale né desiderio: è solo un po’ curiosa. Vede in lui i segni di appartenenza a un mondo superiore a quello borghese, in cui lei vive, cosicché, mentre torna a casa dopo il primo incontro con l’amante, si sente preda di un nuovo senso di vanità, si vede più bella, viva, sana. Tuttavia, la sua indole è profondamente borghese, così tanto da portarla a inserire i clandestini appuntamenti con il pianista nella sua routine quotidiana, tra il caffè e il fioraio, insomma. La paura che dà il titolo al romanzo nasce dall’arrivo sulla scena di una plebea, un’arpia disgustosa che comincia a ricattarla, minacciandola di rivelare la sua tresca. Nel romanzo vediamo evolversi il terrore in cui sprofonda velocemente Irene.
Attraverso il racconto di un ricatto e di un adulterio, Stefan Zweig ci offre una visione panoramica e disillusa sul mondo borghese di Vienna. Questi borghesi si sentono protetti da un senso di superiorità che considerano innato, dal punto di vista e morale e intellettuale e addirittura fisico. Vivono, spesso, una quotidianità placida, disconoscono la trasgressione, realizzano la loro esistenza in incontri ripetitivi e sterili, durante i quali sempre le stesse idee, le stesse posizioni, sono distrattamente riproposte. Irene, immersa agiatamente in questo universo, è indolente e insoddisfatta a causa della mancanza di prospettive: vede solo ripetitività nel suo futuro. Spinta da un moto di, per lei inusuale, curiosità, crede di cambiare qualcosa nella sua routine, mentre inserisce solo un’altra abitudine alle tante che già conosce, quella dell’adulterio.
La vera svolta sarà il terrore onnipresente che comincerà a perseguitarla: la paura la dominerà, la paura di essere scoperta, di essere ricoperta di ignominia, di perdere il suo posto nell’illusione di perfezione del mondo borghese. La paura non la lascia mai, la costringe a rendersi conto di come sta vivendo: comincia a guardare con occhi nuovi il marito, vede i suoi figli come mai li aveva visti fin’ora. Sfiora, o forse persino raggiunge, la follia, è consumata dalla paura: “La paura è peggio del castigo; perché alla fine il castigo è qualcosa di determinato e, sia pesante o meno, è sempre meglio della spaventosa incertezza, della tremenda tensione che si prolunga all’infinito”. Solo il sorprendente rovesciamento finale porrà fine a questo tormentoso sentimento.
Attentissima è la lingua dell’autore: precisa, poetica, una scelta di parole che, a tratti, è capace di lasciare senza fiato. Uno stile monologante ci guida nella mente della protagonista, sempre accompagnati dai suoi pensieri siamo portati verso una totale immersione in questo mondo di incontri borghesi e di paura. Le descrizioni sono indirette, la terza persona consente molteplici interpretazioni. Un romanzo breve ma intenso, quasi un giallo, svolto però sulle orme di un viaggio interiore affascinante e che obbliga alla riflessione.