A volte un’intera vicenda biografica si identifica in un’esperienza unica, che segna più di tutte le altre la nosta vita. A volte un’intera vicenda biografica si riassume in un libro.
È quanto accaduto a Silvio Pellico, nella cui figura si concentrano quei caratteri affascinanti che caratterizzano il Romanticismo italiano. Autore di opere drammatiche e redattore del periodico “Il Conciliatore”, Pellico si è distinto anche per la sua attività politica e rivoluzionaria. Proprio per aver aderito ai moti della Carboneria, viene fatto prigioniero dagli Austriaci. L’esperienza di cattività si protrae per dieci anni, ed è da essa che nasce la composizione del capolavoro del patriota di Saluzzo: Le mie prigioni.
Siamo di fronte ad un’opera, dunque, di facile contestualizzazione: Le mie prigioni è un libro di memorie sulla terribile esperienza della prigionia. Composto tra il 1831 e il 1832, il testo autobiografico racconta, di fatto, la vita del suo autore tra il 13 ottobre 1820, il giorno in cui Pellico viene arrestato a Milano per la sua partecipazione ai moti carbonari, e il 17 settembre 1830, giorno della liberazione.
La prigione, lungo un arco temporale così vasto, non è sempre la stessa. Arrestato a Milano, Silvio Pellico viene dapprima trasferito a Venezia e poi, in seguito alla commutazione della pena di morte – a cui era stato condannato – nel carcere duro, nella fortezza dello Spielberg, nella regione della Moravia (oggi corrispondente alla parte orientale della Repubblica Ceca). La prigionia è condivisa con un amico, Pietro Moroncelli, musicista e patriota italiano.
Il capolavoro di Pellico viene pubblicato a Torino nel 1832, riscuotendo subito uno straordinario successo. Le mie prigioni diviene il libro italiano più letto in Europa nella prima metà del XIX secolo (e già nel ’33 appare una traduzione francese, a cui ne seguono altre in tante lingue).
Ovviamente, il libro non fu una grande pubblicità – se vogliamo usare un eufemismo – all’Impero Asburgico. Le memorie mostravano tutta la durezza e l’ingiustizia della repressione austriaca (e fu solo grazie all’azione del ministro Barbaroux che il libro riuscì a superari quei grandi ostacoli derivanti dalla censura). Celebre la sentenza del presidente Metternich, il quale disse che Le mie prigioni aveva danneggiato l’immagine dell’Austria più di una guerra perduta.
Eppure, nelle intenzioni dell’autore non c’era nessun proposito di denuncia. Silvio Pellico vuole testimoniare al mondo una straordinaria accettazione cristiana della propria sorte e delle proprie sofferenze. È proprio l’esperienza della prigionia che lo avvicina al messaggio di Cristo, l’unica medicina in grado di alleviare i patimenti di un’esperienza terribile, dove tutti, vinti e vincitori, sono accomunati dall’appartenenza ad un mondo nel quale il male regna sovrano. Escludendo dunque qualsiasi motivazione politica, Pellico narra la sua triste avventura, scandendo le tappe di quell’avvicinamento progressivo al Cristianesimo, che in lui sarebbe stato sempre più chiuso, contraddistinto da moralismo e conservatorismo.
Tutto questo significa assoluta accettazione dellà volontà della Provvidenza, completo abbandono ad essa. Nel suo segno terminano le memorie.
Ah! delle passate sciagure e della contentezza presente, come di tutto il bene ed il male che mi sarà serbato, sia benedetta la Provvidenza, della quale gli uomini e le cose, si voglia o non si voglia, sono mirabili stromenti ch’ella sa adoprare a fini degni di sé