L’evoluzione del concetto di autore nella letteratura del Novecento è alquanto problematica. Negli anni Sessanta, movimenti come lo strutturalismo, il post-strutturalismo, il decostruzionismo, hanno sancito che il testo va studiato in sé, nei suoi meccanismi interni, nella sua costruzione, nelle sue figure retoriche, al di là dell’intenzione dell’autore. Il problema del significato reale di un’opera, in un’ottica decostruzionista, addirittura non si pone: esistono solo tanti possibili significati, tante ricezioni diverse.
Nel 1968, in un celebre articolo, “Le mort de l’Auteur”, Barthes arriva a teorizzare la morte dell’autore: la scrittura finisce per eclissare l’io. Questo implica che per comprendere, interpretare e valutare i testi letterari, l’autore non sia un termine di riferimento necessario. In primo piano emergono, al contrario, ora il linguaggio, ora la scrittura, ora la lettura e, in ogni caso, il testo e i testi. Il critico incarna la voce più eloquente, all’interno della critica di matrice strutturalista, che ruota intorno all’idea di intransitività della letteratura, principio che postula l’assenza di un senso originario di cui l’intenzione dell’autore sarebbe la fonte. La nascita dell’autore sarebbe stata, secondo Barthes, un fenomeno concomitante alla scoperta dell’individuo nell’epoca moderna, mentre l’età contemporanea, caratterizzata dalla messa in discussione della soggettività, ha prodotto un discorso di cui gli autori, in quanto individui, non sono i principali artefici. Nel 1969, in una conferenza dal titolo Che cos’è un autore?, Michel Foucault tenta di enunciare l’avvento di una nuova metodologia di analisi in cui, al posto dell’autore come individuo, si instaura quella che Foucault definisce funzione-autore. La conferenza prende le mosse dalla considerazione di una tendenza critica propria della letteratura contemporanea in aperta rottura rispetto all’800: mentre precedentemente si studiava un’opera letteraria per scoprire il volto nascosto dell’autore, la sua individualità concreta e psicologica, nella letteratura contemporanea si è fatta spazio l’idea che un’opera non coincida con la forma di espressione di un’individualità particolare. Al contrario, l’opera comporterebbe, in un certo qual modo, la morte dell’autore, il sacrificio dei caratteri individuali del soggetto scrivente all’esistenza anonima del linguaggio. Queste affermazioni sembrano riecheggiare molto da vicino la tesi della morte dell’autore già consolidata con gli strutturalisti e Barthes. Per Barthes, così come per Foucault, soggetto e autore incontrano un destino comune nel pensiero contemporaneo: l’annullamento della loro capacità costituente e individualizzante. Tuttavia in Foucault, se l’autore come individualità scompare, ne resta la funzione classificatoria che è del tutto storica, legata al sistema artistico che si è attestato nella modernità. Senza la funzione-autore, quindi, un testo non può legarsi alla propria cultura e avere un senso determinato. In realtà, a ben vedere, in quanto funzione richiesta dai processi di costruzione dell’opera, l’autore sembrerebbe qualcosa che non può scomparire. È la nozione stessa di opera che presuppone quella di autore. Il riferimento all’autore, in quanto soggetto di intenzione artistica, all’autore in quanto responsabile di selezioni operate entro i possibili artistici, dunque in quanto soggetto di scelte di poetica, è la condizione stessa per poter attribuire valore artistico a un testo. L’autore, d’altronde, è stato per lungo tempo una nozione ovvia e pacifica. Ma agli inizi del XX secolo, essa viene per la prima volta sottratta allo sfondo non problematico delle epoche precedenti, per diventare una nozione sempre più controversa
Il nocciolo della problematizzazione dell’autore che caratterizza la tarda modernità è l’eccessiva valorizzazione delle scelte autoriali, avvertite dagli artisti come distruttive per l’arte. Il bisogno di confutare la famigerata “critica dell’autore”, quella contro cui Proust aveva mosso un attacco radicale nel Contre Sainte-Beuve, era motivato anche dal nuovo impulso che l’esistenzialismo sartriano ( che aveva riportato in scena con forza l’intenzionalità della coscienza e la sua “libertà” di espressione, riducendo il fatto letterario e inquadrandolo all’interno di un problema più vasto quale appunto l’uomo, la sua esistenza, le sue difficoltà, le sue potenzialità ) e la psicanalisi applicata alla letteratura – o meglio all’autore – avevano riaffermato con forze, ridando credito al peggior psicologismo e biografismo, saltando di netto ogni specificità artistica delle opere, considerate alla stregua di sintomi. Questa battaglia aveva assunto toni epici, intrappolando la stessa arte e la letteratura, chiudendo loro qualsiasi orizzonte. Alcuni studiosi contemporanei di uscire dall’impasse, innanzitutto ponendo una nuova attenzione al rapporto tra biografia e opera. A modelli di riferimento come Freud e Lacan, corrispondono esperienze di critica letteraria psicanalitica che da Mario Lavagetto arrivano a Francesco Orlando, entrambe importantissime per costruire un metodo valido e adatto per approcciarsi alla figura dell’autore, restituendogli la giusta collocazione; il tentativo di trovare –insomma- il giusto equilibrio tra persona e testo. Per questi studiosi, l’opera è qualcosa che si pone a metà strada tra il processo creativo e la ricezione, e quest’ultima può arricchirsi qualora possa giovare di informazioni che riguardano la genesi del testo e le ragioni ( consapevoli o meno ) che sovraintendono la produzione. Il fatto stesso che questo tipo di atteggiamento sia trasceso e che molti studiosi, sulla scia di Sartre, si siano quasi totalmente votati a un interesse per l’uomo che ha scritto, ha portato alla chiusura, alla mitizzazione della morte dell’autore. Scrutato troppo nel profondo, l’autore si è eclissato, mettendo in primo piano solo il testo letterario. Francesco Orlando, usando una metafora, definisce la creazione letteraria un colabrodo: il vissuto dell’autore dà sapore a un’opera, ma non è di questo che occorre preoccuparsi quando si assapora un testo letterario. I residui, più o meno intenzionali, non costituiscono l’anima dell’opera, anzi si deve ben distinguere l’immaginario dal vissuto.
In conclusione, l’autore resta una figura fondamentale per la fruizione dell’opera letteraria, che non può essere considerata né sintomo né semplice testo, svincolato da una ben determinata potenza creatrice.