Natale è una festa inutile.
A dire la verità non ce l’ho proprio con il Natale in sé, ma con quel maledetto pranzo che riunisce tutti i parenti ad un’unica lunghissima tavola a mangiare quello che mia madre comincia a cucinare alle cinque del mattino. Il menù è perfetto, cambia ogni anno e lei comincia a pensare cosa cucinare a ottobre, ma è matematico che ci sarà sempre qualcuno che dirà “ah… ma a me non piace”, “ah… ma io sono a dieta” (a Natale, poi?!), “ah… ma io questo lo mangio solo se lo cucina mia nonna”.
A me viene la nausea solo ad immaginare tutte quelle persone riunite nella taverna di casa mia, ma mamma ci tiene tanto, così io e papà reggiamo la parte per farla contenta. A dire la verità, è proprio questo il vero regalo di Natale che le facciamo ogni anno: sopportare tutte quelle zie e cugini per otto ore filate.
Eccoli, cominciano ad arrivare alle dieci e mezza anziché alle undici perché avevano paura “di trovare traffico”. Io sono ancora in pantofole e i miei capelli hanno preso la stessa forma dei rami del nostro abete di Natale, ma loro sono già qui. Mi sorridono, schioccano due baci all’aria vicino a dove si trovano le mie guance, come se avessero paura di venire a contatto con il mio viso. Alcuni mi guardano squadrandomi da capo a piedi e stai sicuro che le zie si accorgeranno con una sola occhiata che ho preso quattro chili dall’anno scorso (ma non mi diranno nulla, si limiteranno a commentare a bassa voce tra di loro mentre osserveranno tutto quello che mangio).
“Come stai?”, “Bene!” (domanda standard, risposta standard).
“Ma guardati, sei proprio cresciuta dall’anno scorso!”, “Ah, davvero?” (non è vero, zia, su, ho vent’anni ormai, non cresco più, al massimo cambio colore o taglio ai capelli).
“Mi fa tanto piacere vederti, perché non venite a trovarci un po’ più spesso?”, “Certo, zio, lo faremo!” (bugia, bugia, bugia).
Mia mamma sorride, ma dal modo in cui i suoi occhi non si increspano ai lati capisco che è solo tesa, non felice. Anche lei, come me, nota gli sguardi di falco delle zie che saettano per tutta la stanza, pronti a notare ogni minimo difetto nella tappezzeria, ogni ragnatela o macchietta di muffa. Il Natale è una festa, non capisco perché la gente invece di divertirsi deve rovinarsi la giornata invitando a casa propria persone che continua a rivedere solo perché “fanno parte della famiglia”. Io, per esempio, inviterei solo zia Lucia e zio Roberto, loro almeno ci tengono sul serio a noi, vengono sempre a trovarci quando fa gli anni mamma e mi danno sempre un colpo di telefono quando possono. Eppure da noi vige ancora quella regola morale non scritta secondo la quale bisogna invitare tutti i parenti o nessun parente. Naturalmente se non ne inviti nessuno puoi benissimo considerare il tuo nome come già scritto nella lista nera di famiglia, assieme a quello della cugina Febe (ha preso un regalo a zio Mario ma non alla consorte), la prozia Serena (si era dimenticata del compleanno della sorella, ma è anche comprensibile dato che ha quasi ottant’anni e la memoria comincia a fare i capricci) e anche a quegli impudenti di zia Paola e zio Ferruccio, colpevoli di essere stati in luna di miele proprio quando nonna Pina aveva organizzato un pranzo dove tutti i parenti erano invitati.
Finalmente ci mettiamo a tavola. I cugini più grandi siedono accanto ai genitori, dando un’occhiata furtiva allo smartphone ogni volta che questi si voltano dall’altra parte e scambiando quattro parole di circostanza con quelli seduti di fronte. I cugini più piccoli sono visibilmente immusoniti perché i loro genitori, oltre ad averli costretti a vestire abiti da cerimonia poco pratici, hanno sequestrato loro il Nintendo e li hanno obbligati a rimanere senza televisione almeno prima e durante il pranzo.
Io me ne sto qua seduta a tavola con un sorriso plastico dipinto in viso, dando occhiate veloci all’orologio ogni dieci minuti e sperando che questa agonia finisca presto. A quasi vent’anni dovrei aver superato il rigetto infantile nei confronti dei parenti, quegli adulti che non aspettano altro se non pizzicarti dolorosamente le guance fino alle lacrime. Eppure, nonostante siano passati anni, non riesco proprio ad andare oltre a quelle quattro frasi standard che vengono ripetute ogni anno con lo stesso tono artificioso di chi parla solo per non rimanersene zitto. La mia famiglia non sono loro, benché tra noi esistano legami di sangue.
Come avevo immaginato, di fronte a me si sono seduti zia Sandra e zio Nicola, velenosamente definiti “i Milano”, con i loro due figli, entrambi laureati in economia alla Bocconi, entrambi con l’ultimo modello di iPhone accanto alle posate (“non è maleducazione, se si tratta di Apple”), entrambi con quell’aria di sufficienza che Milano modella sui visi dei nostri compaesani.
I Milano non sono per niente lombardi, ma sono stati definiti così da mio padre dopo l’ennesimo discorso su quanto il capoluogo della Lombardia sia la città perfetta in cui vivere, citando luoghi, vie, locali ed università. L’anno scorso hanno passato quasi due ore ad indottrinarmi su quanto frequentare l’università a Milano sia una garanzia per il futuro professionale dei giovani. Di conseguenza non rimango stupita nell’udire zia Milano che mi chiede: “Allora, tua madre mi ha detto che studi a Padova…”
“…Lettere moderne, sì”.
Sorride per un attimo, mostrando le gengive.
“Oh, sì. Lettere. E, dimmi”, beve un sorso di vino, “cosa intendi fare, dopo?”.
Scrollo le spalle. Cosa vuole che le dica? Sa benissimo che uno studente di Lettere non sceglie questa facoltà pensando a “cosa intende fare dopo”, quindi ritengo decisamente inutile risponderle.
“Perché, sì, no” continua lei ridacchiando, “è bella la letteratura, ma non ti offre molte occasioni di trovare un lavoro… remunerativo”.
“…o remunerato”, conclude zio Milano.
Stringo i denti senza commentare. Mio padre, che ha ascoltato tutto il discorso, mi sussurra all’orecchio: “se ora lanci una polpetta sopra quegli immacolati completi firmati, sarò il primo a sostenerti”.
Ore dopo termina quel pranzo che sembrava non avere mai fine. I parenti se ne sono andati con i bambini in lacrime per la stanchezza e l’astinenza da videogiochi e televisione, i cugini che ormai non reggevano più la parte di animali sociali e si erano rinchiusi in una cupa misantropia e l’ombretto in crema delle zie colato sulle guance. Siamo solo io, mamma e papà.
Ripuliamo cucina e sala da pranzo, ci mettiamo in tuta e ci piazziamo tutti e tre nel divano accanto alla stufa a pellet, a guardare la TV. Oggi danno Una poltrona per due, come ogni Natale.
E come ogni Natale ci scambiamo i regali lì, sopra al divano, tutti e tre stremati dalla giornata impegnativa. Li apriamo insieme e scambiamo le nostre opinioni su ciò che ci siamo comprati a vicenda, commentando che il colore dei maglioni che regala mamma a papà è sempre troppo acceso per i suoi gusti. Per la prima volta in tutta la giornata vedo mamma ridere di cuore, mentre papà si limita a sorridere.
“Buon Natale”, dice papà.
E mentre sto qui insieme alla mia famiglia penso che in fondo il Natale non è poi così male.