“Cicileu”
“Ieu”
“Siete i soliti imbecilli”
Il caldo sembrava liquefare l’asfalto, erano sudati da fare schifo gettati sull’unica panchina di quel parco, cinque euro di fumo ancora in tasca e nessuna idea in testa di cosa fare di quel pomeriggio, e di nessuno dei pomeriggi a venire. Di quel caldo solo la noia era peggio. Ed erano sempre così le loro giornate in quel minuscolo paesino dove si erano fatti la nomea di “cattivi ragazzi” giusto grazie a qualche spinello fumato senza nascondersi. Neanche a essere cattivi provavano gusto: era troppo facile. Francesco era il terzo di una stirpe di muratori, aveva 17 anni e lavorava in cantiere già da tre, Davide, 19 anni, viveva sulle spalle di sua madre vedova e della pensione di reversibilità di suo padre morto oramai da molti anni e Gianluigi, 16 anni, lavorava al mercato dei fiori, ed era pure allergico. Non erano abbastanza grandi nemmeno per votare e sentivano di avere già perso, di essere dei falliti.
“Io me ne voglio andà” disse Gianluigi.
“E dove vai?” rispose uno qualsiasi degli altri due.
Silenzio.
Non c’era un posto dove andare ma così, a turno, uno di loro paventava l’idea di una fuga esotica, di un chiosco aperto su di una spiaggia caraibica, di una vita lontano in paesi di cui non conoscevano nemmeno l’esatta ubicazione. E forse era l’unica cosa che li accomunava a quei ragazzini dei licei che amavano tormentare: la capacità di sognare ancora. Ma i loro erano sogni piccoli, senza una vera struttura, e poi dal sogno si dovevano svegliare ed erano di nuovo là, stessa panchina, stesso caldo, stessa voglia di non essere per non pensare. Solo sarà che quel giorno di luglio il caldo era troppo e i pensieri si incollavano tra loro dando vita a idee ingarbugliate, sarà che la vita non può essere solo sudore e noia, fatto sta che in quel giorno i sogni di Francesco si fecero strani.
“Io mi so stancato, me ne voglio andà”
“Francé e dove te ne vai?”
“Non me ne fotte, basta che non fa così caldo”
“E vabbene, ciao, mandaci una bella cartolina mi raccomando, mo’ prima che te ne vai però passa la canna, che ti sei mangiato il pollo?”
“Ve ne dovete venire pure voi”
“Francé e noi a te stavamo aspettando, mica che non teniamo i soldi no, a noi ci piace di stare qui, dentro a sto parco di merda in questo paese di merda. Strunz”
“Dobbiamo fare una rapina”
E così che gli venne l’idea, non che fosse la prima volta che ci pensavano, solo Francesco era stato il primo a dirlo ad alta voce. C’era da scegliere un obbiettivo. Le possibilità non erano troppe a meno di non volersi spostare dal paese, cosa che non presero nemmeno in considerazione, come se oltre i luoghi conosciuti della loro esistenza ci fosse il nulla, un nulla che prevedevano di attraversare solo una volta riuscito il colpo. La rapina era la loro chiave per aprire il cancello che dava sul mondo intero. Individuarono tre possibilità: la Posta, l’unica filiale del Banco di Napoli e la casa di Tatore, il boss del paese. Erano giovani ma non deficienti, e quindi scartarono la casa del capoclan: se ti beccano a rapinare una banca vai in galera, se ti beccano che rubi a uno come Tatore te ne vai a casa tua, ma dritto in una cassa di legno. Pianificarono il colpo appostandosi per giorni davanti a tutte e due gli edifici rimasti e, con un’attenta osservazione, si resero conto che la Posta era di gran lunga più vulnerabile, meno sorvegliata, come se lì non ci fossero soldi ma solo cartoline d’auguri. Studiarono la piantina del posto, il flusso di persone che entravano e uscivano, i giorni della settimana e via dicendo, per tutto il mese di luglio non fecero altro che darsi il cambio, rimanendo sempre in due, davanti all’ingresso, per raccogliere quante più informazioni possibili. Ora c’erano da trovare le armi. Furono subito scartati i coltelli che, in caso di eroismo di uno dei presenti al momento del colpo, li avrebbero obbligati quasi certamente ad un corpo a corpo di cui non sentivano proprio l’esigenza. Ma dove trovare una pistola? In paese li consideravano cattivi come squali, ma non erano altro che pesciolini che per farsi belli ai loro stessi occhi fingevano di tanto in tanto di avere i denti grandi. Per tutto il mese di agosto sparsero voci, con la maggior cautela consentita dalla loro giovane età, per potere almeno trovare un “ferro”, uno qualsiasi, giusto per fare un poco di scena: niente da fare. Si decisero allora, dopo il ferragosto visto che i negozi erano tutti chiusi, a comprare in un negozio di modellismo quello che ai loro occhi era il giocattolo più simile ad una vera arma. Dopotutto gli era costata 70 euro, e per trovarli non avevano fumato manco una volta in dieci giorni. Ora c’erano da decidere i ruoli. Chi sarebbe stato il palo? Con un freddezza implacabile scelsero di assegnare il compito di sentinella a Davide, l’unico maggiorenne, così in caso di rogne se la sarebbe cavata bene almeno quanto loro che non arrivavano alla maggiore età. A metà settembre decisero che il momento era giunto, o meglio c’era da attendere il giorno in cui alla Posta vengono accreditate le pensioni, quindi i primi di ottobre, e poi agire. Rapina e fuga, soldi e una nuova vita: erano in estasi.
Il giorno giunse. Trassero dei respiri profondi mentre Francesco si infilava la finta pistola nella cintura, Davide smontava la targa della Uno di suo zio e Gianluigi preparava per loro le tre calzamaglie da mettere in testa, precisamente tre gambe di due paia di calze nere appartenenti a sua madre. Finalmente si mossero: ora o mai più. Davanti alla Posta non c’era ancora nessuno, mancava più d’un ora all’apertura ma sapevano che il contante sarebbe arrivato dopo poco, e così fu. Il furgone blindato lasciò il suo carico prezioso e riprese il suo viaggio, come avrebbero fatto anche loro tra poco.
“Andiamoooo”
“Forza, forza, forza…”
“Ora”
Urlavano, ma con moderazione per non attirare l’attenzione, si incitavano, si spronavano, pronti all’azione. Dopo una decina di minuti di urletti e gridolini, muscoli mostrati e denti esposti a ringhio fecero silenzio. Nessuno si mosse, o meglio solo il palo, che con un gesto secco spense il motore dell’auto.
“Mi caco sotto” disse Francesco
“Pure io” risposero in coro gli altri due.
Così come erano arrivati andarono via lasciando sulla strada uno per volta, come molliche di pane, i loro passamontagna in nylon 40 den.
Per qualche giorno si evitarono, imbarazzati e arrabbiati, ma poi a capo chino cominciarono a vedersi di nuovo, stessa panchina ma almeno il caldo adesso aveva dato loro tregua.
“Cicileu”
“Ieu”
“Che coglioni”
Non se lo dissero mai, ma quelli erano stati i tre mesi più belli della loro vita, la prima volta in cui erano stati capaci di desiderare qualcosa: un grande sogno dopotutto è sempre un grande sogno.