Amid ha gli occhi cilestrini e pieni di vento. Occhi tinti dal mare guardato per ore dalle montagne lucenti e balzate di terrazze d’ulivi, in cui i paesi antichi cresciuti al riparo dei costoni di pietra chiara e poggiati sull’aria sono divenuti in breve nidi di miseria e d’abbandono, prima ancora delle terre di pianura, nel contagio che poi è dilagato in tutta la regione. Amid se n’è andato per ultimo, tormentandosi senza disperazione soltanto per quella contemplazione turchina che non vi sarebbe più stata e non per il distacco dal paese dov’era nato.
Sul battello d’un’altra epoca, le virole schiodate dalle centine troppo inflesse, il ponte aspro di ruggine e il galleggiamento affogato d’un braccio, stipato nel ventre dell’animale impaurito fatto di carne dei corpi fuggiaschi ammassati in coperta, il mare non sembra più la stessa cosa. Visto da lì non é così immenso e sacro, non è più eterno come il sole o la luna, non è impassibile come Amid ha creduto ammirandolo dai picchi. Ora la striscia d’azzurro che sale fino all’orizzonte è sottile e mossa. Il cielo largo e immobile non è cambiato, ma il mare è vivo e s’agita, il ferro ne patisce il subisso di collera, e torce e stride. Eppure arranca ancora, mantenendoli a galla e in rotta, proseguendo così la sua meschina profanazione. E il Blu oltraggiato ondeggia, oscilla e schiuma di rabbia, finendo per cessare d’esser divino.
Ha perduto un mese di viaggio per arrivare a quel mare, e quasi altrettanto per trovare l’imbarco, ma finalmente la prossima costa sarà la fine del tragitto, la terra della fortuna, il nuovo inizio. Basterà fuggire le motovedette, mettere il piede a terra e correre verso i recapiti di chi conosce ed è già arrivato prima. Non sarà difficile, il gran numero di migranti ha ormai reso usuale l’aspetto e l’accento di quelli come lui, e Amid ha sentito narrare della generosità con cui i nativi accolgono e proteggono i clandestini. No, una volta oltrepassata la linea del controllo militare, appena riuscito a valicare la spiaggia e le dune, non sarà più nulla difficile.
Ma intanto il mare si ribella al suo nome docile; Canale di Sicilia, un avvilimento immeritato della fama che ai salpamenti tutti sanno invece essere feroce. L’ossame d’acciaio geme un rantolo cupo ad ogni compressione d’onda e subito dopo riparte imbardando d’angoli ampi, come stordito dall’urto. I racconti di naufragi che strisciano di bocca in bocca nei villaggi improvvisati che germinano alla rinfusa vicino ai punti d’imbarco sono dunque veri: giungere alla nuova vita o morire senza più un nome sono sentenze che abitano lo stesso confine invisibile e solo per il sussulto del caso i piedi degli uomini si trovano dalla parte giusta, quand’esso si rivela.
La stagione prometteva sereno, e il sereno ha portato giorni di vela lunga che per un po’ hanno lasciato tranquilli gli uomini intenti a scorgere le rive all’orizzonte, ma poi ha bruciato i volti e spaccato le labbra, ha assetato i bambini fino a derubarli del pianto, lasciandoli solo al canto delle madri, ed alla fine ha lasciato entrare il khamsin che ha montato mare, troppo e che ha continuato a crescere fino alla notte stellata.
Da ore Amid guarda gli uomini perdere il senno scuotendo di smarrimento, spiritarsi tanto da lasciare gli appigli certi, perdere l’equilibrio e rovinare sul ponte, divenendo prede dell’acqua. E poi a vederne altri tentare pietosamente di recuperarli alla ragione, di ricondurli alla resistenza smarrita e al ripudiato possesso di sé, come si fa sulle montagne coi cerbiatti o con i cuccioli di capriolo caduti per errore in trappole non fatte per loro. E si chiede perché lui non vacilli. Se non sia per la hadra calma delle donne rannicchiate vicine, che risuona sempre uguale fin da prima che il sole torrido divenisse maligno, o se non sia solo il passamano solido del boccaporto di prua a cui è attorcigliato dalla partenza, distante dai masconi e dallo schianto delle onde sulle murate, a infondergli certezze che non esistono.
Il tempo, se mai v’è stato, in cui il barcone giovane e intatto ha navigato un mare come questo dev’esser perduto nei ricordi di qualche marinaio ormai vecchio e lontano dai porti. E la zavorra d’oggi non è quella di allora. Non è etica, e non è tollerabile; non lascia fiato allo scafo, come se la chiglia dovesse decidere ad ogni ondata verso quale direzione restituirne la forza; se verso l’alto, sollevando il suo scheletro all’aria e al respiro oppure verso il basso, affossando, abbandonandosi all’inedia e lasciandosi inghiottire.
Solo il motore mormora sempre identico e indifferente, rasserenando Amid. Più a poppa, sul cassero, i tre contrabbandieri d’uomini che sono d’equipaggio non si lasciano impietosire dalla calca in lacrime che li prega di lanciare i traccianti, di chiedere soccorso, e rispondono con facile e tranquilla violenza ai rari disperati tentativi d’usurpare loro il governo della nave. E anche questo incredibilmente lo rinfranca.
La notte sul finire, ancora cosparsa di stelle e allagata di luce, lascia che il mare esibisca nitidamente la sua pazzia agli occhi degli uomini, ai pochi rimasti disposti a volgersi, perché vengano sommersi anch’essi di ossessione e terrore aguzzo, vedendo piovere le onde lunghe e enormi, e nere, rotte solo a sprazzi dal ghigno di schiuma bianca che presto svanisce per riapparire subito dopo, poco più in là nel volto dell’acqua. Le creste celano i cavi così a lungo che se anche qualcuno vi fosse a guardare, a cercarli, dovrebbe avere grande fortuna e pattugliare molto vicino, per scorgerli. Ma non c’è nessuno a cercarli in quel tempo, e se non crolleranno, se non cadranno da soli, le motovedette stanotte non arriveranno.
Dov’è la terra, dov’è la terra dopo sette giorni di traversata? Cinque giorni avevano detto, col bel tempo forse quattro. E fra un’ora è l’alba, fra due se gli elicotteri potranno volare, verranno. Loro sì verranno, arrabbiati e attenti dopo le ore d’inerzia costretta.
Il chiaro e la mano sgarbata lo sorprendono insieme, mentre è assorto nel conto delle ore e dei giorni. La lingua con cui il marinaio gli urla in faccia parole brutali e concitate, la capisce; merito di suo nonno che gliel’ha imposta da ragazzo, come a lui suo nonno. Dice di buttarsi, di sbrigarsi che la barca ha già lasciato la fonda e punta al largo. E solo saltando nel frangente dal castello di prua s’accorge della sottile linea solida e scura alla portata degli occhi.
Pochi metri, poche centinaia ancora. Fra i marosi, col sacco e i vestiti, in mezzo al sentiero serpeggiante di teste e salmerie sperdute che conduce a riva, insieme agli ultimi più deboli e spossati che s’aggrappano, strattonano e lo pregano, ma sono solo duecento metri ancora e poi l’Africa.
L’Africa finalmente.