Fissò per l’ennesima volta il foglio bianco, mordendosi il labbro, con una mano tra i capelli ancora irti di sonno. Era una tortura, come tutte le volte.
Buttò via penna e calamaro. Quello che si mangia, sì. Una volta aveva dimenticato di pranzare e fu costretto ad assistere ad un fastidioso dibattito tra lo stomaco ed il cervello. Lo stomaco ebbe la meglio, ed il cervello si rifiutò di andare avanti, offeso.
Quindi meglio mangiare quello che capita, che cercare di mettere la pace tra quei due.
Si allontanò dall’altro dei suoi crucci: quel maledetto foglio bianco. Stava lì, immobile, senza proferir parola.
Quasi quasi preferiva lo stomaco ritroso. Almeno era di compagnia.
«E io che non mi lamento affatto?» sbottò il cervello offeso.
«TU… è meglio che taci» sibilò di sbieco.
Il cervello ammutolì e tornò nel suo angolino, colpevole.
Poggiò i gomiti sul davanzale della finestra, alla ricerca di un po’ d’aria fresca, che non tardò ad arrivare, portando con sé parole. Era in ascolto di uno dei suoi silenzi preferiti, quando qualcuno tossì da un angolo lontano.
Arricciò per un attimo la fronte stringendo gli occhi, con disappunto, ma non si mosse.
«Ehi! Ehi tu!»
«Che c’è? Ora parli?» si girò, con tono stizzoso.
Non ottenendo risposta, si avvicinò allo scrittoio, con aria di sfida.
Il foglio era sempre lì, muto, immobile. La penna al suo fianco, immobile anch’essa.
«Che gran figli di…» e si allontanò di nuovo, questa volta in direzione della poltrona.
Ci si lasciò cadere di traverso: una gamba all’aria poggiata sul bracciolo, un braccio penzoloni, un altro sulla fronte. Socchiuse gli occhi e sospirò, cercando di liberare il cervello da quell’ammasso di…
«Mi hai chiamato?» scattò sull’attenti il cervello.
«Ti pare?» rispose con ironia.
«Oh, mi era sembrato…»
«Ti è sembrato male. Lasciami in pace, ora»
«Ok» quasi si scusò il cervello, grattandosi il cervelletto per l’imbarazzo.
Si udì un risolino in lontananza.
«Lo so cosa stai pensando» irruppe il cervello.
«Ma va?» chiese con finto stupore. «E tu, lì in fondo, c’è poco da sogghignare. Ora ti faccio ridere io!»
Il foglio bianco ebbe un fremito.
Si alzò dal divano con un salto, si sedette alla scrivania, afferrò la penna e cominciò a buttar giù parole con furia:
Fissò per l’ennesima volta il foglio bianco, mordendosi il labbro, con una mano tra i capelli ancora irti di sonno. Era una tortura, come tutte le volte…
«Allora» si stiracchiò, «ti è piaciuto? Un voto alla mia prestazione?». Una vena di malizia nella voce.
«No… no…» boccheggiò il foglio non più bianco.
«NOVE? SOLO NOVE? QUESTO E’ MINIMO UN DIECI!»
«Non… non mi sento tanto bene» riuscì a buttar fuori il foglio con quello che sembrava il suo ultimo respiro. Rilassò gli angoli e restò immobile. Quelle furono le sue ultime parole.
Il cervello rabbrividì. «E’ questa la fine che farò anch’io?»
«Mors tua, vita mea! Ah!» sentenziò trionfante, battendo i palmi delle mani sul legno e facendo volar via la penna per la stanza.
Questa cadde in terra, ruzzolando per un po’ sul pavimento.
«Ahia»
La penna si pentì subito di aver parlato: sentì addosso gli occhi stretti di chi ha trovato la sua prossima vittima.
Il cervello pensò bene di tacere.