Tu sei lì che cerchi di arrivare in fondo ad un ragionamento, di concludere una maledetta formula, nel migliore dei casi semplicemente di ‘salvare’ (mai termine fu più azzeccato!) il tuo lavoro di ore; hai sostenuto un’estenuante guerriglia con la macchina, amica perlopiù, ma sempre sull’orlo del tradimento. ‘È fatta’, pensi compiendo l’ultimo gesto, ciccando l’ultimo tasto; ma è quello sbagliato: quello che il tuo computer, per quanto abile possa essere, non capirà.
E così, ineluttabilmente accade.
Che tu ti serva di finestre, di mele, di pinguini, il peggio arriva sotto forma di una calata monocromatica: uno schermo blu (che nel tentativo di umorismo nerd è stato chiamato “Blue Screen of Death”), una calata di grigio oppure l’inesorabile oscurità del nero. Non sai cosa l’ha scatenato, probabilmente una richiesta superiore alle sue possibilità: fatto sta che quel lurido agglomerato di circuiti è incapace di assecondarti, e fa la prima cosa che gli viene in mente. Si blocca. Resetta. Azzera la sua volatile memoria, a cui tu avevi affidato i tuoi brandelli di genio. Riparte, da zero, come se nulla fosse. Mi immagino computer del futuro, intelligenti, che al termine di tutto questo processo fischiettino indifferenti, alla faccia tua: tanto siete in due, lì, e solo uno dei due ha lo schermo e la tastiera. E generalmente non sei tu.
Questa cosa, se vai a cercare su Wikipedia, in linea di massima si chiama Kernel Panic.
L’ho scoperto pranzando ogni giorno al bar con i colleghi dello “Staff IT”, che se non siete pratici di aziendalese è la combriccola di tecnici che vi salvano le chiappe quando il pc sembra tirare le cuoia, quando pigiando il tasto errato formattate tutto, quando il toner della stampante rantola sputacchiando. Per lungo tempo abbiamo scelto quel bar: costoso, affollato, qualitativamente mediocre; ma tremendamente stimolante per l’esercito di umanità che vi transitava. Avevamo un soprannome per tutti: l’uomo-cubo, il mansardato, il sior conte…
Dei due baristi, uno era fenomenale: giocoliere, cabarettista, intrattenitore, rumorista. Avrebbe fatto ridere Buster Keaton il lunedì mattina dopo aver pagato un pieno di benzina. L‘altro, no. Diciamo che “brillante” non gli si addiceva. Un eterno sorriso che tradiva un inequivocabile “Eh?” lo accompagnava imperturbabile per tutta la giornata. Dialoghi più profondi di “dov’è la Gazza?” erano impegnativi.
Ovviamente, il padrone era lui.
E insomma, ci mancava la targhetta con l’appellativo da appendergli dietro la schiena.
Un giorno uno di noi, sotto Natale, gli capita in cassa con fare beffardo. Osserva una ciotola lì a fianco, piena di torroncini invitanti – un euro l’uno, se non ricordo male: probabilmente erano incartati da Cartier.
“Belli questi torroncini: a che gusto sono?”, è stata la domanda.
“Guarda, quelli bianchi sono al cioccolato al latte e quelli blu al cioccolato fondente”.
Una rapida occhiata alla ciotola ha scatenato un’ovvia domanda: “Ah. E quelli rossi?”.
Silenzio.
Sguardo perso.
Sorriso “eh?” che cala in un disappunto distante, assente.
Il tempo così, sospeso, a quella cassa di un bar del centro; noi bloccati, in attesa di un’epifania, un gesto, qualcosa.
Poi, il sorriso si riaccende sul suo viso di cera, gli occhi tornati a inquadrarci dall’altra parte della cassa.
“Sì, dunque, tu avevi? Un panino, un tramezzino, e poi?”.
Noi ci siamo guardati l’un l’altro. L’avevamo trovato, il suo cartellino.
Kernel Panic.