La fame sono io.
Per fame, intendo quel buco spaventoso
di tutto l’essere, quel vuoto che attanaglia,
quella aspirazione non tanto all’utopica pienezza
quanto alla semplice realtà:
là dove non c’è niente,
imploro che vi sia qualcosa.
Amélie Nothomb
Ci sono delle fasi della vita in cui tutti hanno fame. Di qualsiasi cosa.
Fame di luoghi, di persone, di cibo, di libri e cinema, fame di occhi e di labbra, fame di mare, di colline, di prati inglesi e cascate americane. Sono quelle fasi dove le mura di casa sembrano insopportabili e striminzite, troppo piccole per accogliere quell’incendio enorme che vi sta scoppiando dentro, che sta divampando e vuole avvolgere tutto. Sono quelle fasi dove si potrebbe correre fino a consumarsi le ossa delle gambe, solo per raggiungere una meta; dove si balla fino a buttare al vento l’ultima goccia di sudore e la vita la senti circolare nelle vene, così prepotente, così forte da non poterla contenere.
Sono quelle fasi dove si andrebbe a cercare ovunque, anche fino all’ultimo angolo del mondo, il senso e il significato di qualcosa. Dove si cerca, spasmodicamente e ossessivamente, qualcosa con cui riempire un vuoto di cui non si sa il nome, alcuno lo chiamano direttamente vita, altri senso, altri ancora mistero.
Il brano trattato oggi è tratto da “Biografia della fame” di Amelie Nothomb, un’autobiografia dell’adolescenza della scrittrice. La fame di Amelie è la fame di tutto, di conoscenza e di spirito; il libro è formato da episodi collegati tra di loro da questo concetto di una profonda voglia di sapere tutto, di conoscere nuove cose, di provarle e assaggiarle. Il libro tratta l’argomento da vari punti di vista, intrecciando una storia con concetti e nozioni storiche e politiche, tutto raccontato da un adolescente che vuole viaggiare e che riesce a farlo, raccontandolo poi attraverso i suoi libri.