09/12/1986 Lione, Francia.
Entrò in quella stanza buia, come ogni sera. Appena Jacques terminava di mangiare attraversava un lungo corridoio, apriva la porta ed entrava nel salone. Una luce artificiale filtrava dalla finestra creando ombre allungate. Mobili, quadri, tappezzeria formavano un agglomerato scuro e indistinguibile. Eppure Jacques vi si insinuava mantenendosi distante da ogni oggetto fino a raggiungere la sedia posta proprio accanto alla finestra.
Si sedette lentamente. Contemplò le prime forme gradualmente palesatesi a seguito dell’adattamento della vista all’oscurità. In quei momenti il tempo sembrava curvare verso il sordo brusio delle ore che precedono il sonno. La nostalgia si confondeva con le forme appena accennate di un tavolo. Il mondo si concretizzava tra l’oscurità e l’odore del legno di cui era fatto il volto antico dell’esistenza.
Jacques teneva stretti i braccioli della sedia. Un po’ curvo e con gli occhi spalancati tentava ancora di scorgere il lato residuo del tempo.
Guardò per una frazione di secondo lo spazio vuoto che c’era tra il tavolo ed il muro. Si lasciò riempire dei profumi e delle forme di colei che un tempo viveva insieme a lui, e poiché il tempo trascorso dall’abbandono non aveva ancora cancellato del tutto il dolore, i sui occhi si bagnarono di una debole nostalgia. Quella donna fu per lui il respiro ed il cammino per tre anni. Pensò che la solitudine, quella di tutti, è il giusto e soffocante prezzo da pagare per aver volontariamente o involontariamente, nel corso della vita, reso soli gli altri.
Sfregò più fiammiferi sulla parte ruvida della scatola, il tabacco nella pipa, quella sera, resisteva al fuoco più degli altri giorni. Quando la prima nuvola di fumo si dissolse, Jacques, come ogni sera, guardò verso il palazzo di fronte. La sequenza di luci, il movimento che si intuiva attraverso le tende, l’alternanza dei gesti delle persone che vivevano in quel palazzo scriveva nei sensi la monotonia di una vita per tutti uguale, immersa nell’inganno di un vincolo inevitabile.
Vi erano gesti di una lentezza esasperante nella vita di quella coppia. Jacques cercò di immaginarla per intero, la paragonò a quella che aveva condotto con Linda fino a pochi anni prima. Linda… ogni cosa era rimasta in quella casa così come l’aveva lasciata, intatta, immobile.
A Jacques piaceva affibbiare nomignoli ad ogni persona che segretamente osservava dalla sua finestra. Chiamava “il morto” il marito e “la bradipa” la moglie. Erano i suoi preferiti, all’ultimo piano del palazzo di fronte, quella lenta coppia reiterava la vita avvolta da una nube soporifera. Erano entrambi a tavola. Mangiavano, e, grazie all’assenza di tende, Jacques, in grado di osservare nitidamente ogni cosa, giocava spesso ad indovinare quali fossero le pietanze di cui si cibavano.
Quel palazzo sembrava un alveare. Tante erano le finestre illuminate, in tutte trovava spazio il teatro della vita. Gesti più o meno visibili raccontavano il lato silenzioso di ogni persona. Gesti necessari talvolta, attraverso i quali ogni persona si mostrava in tutta la sua vulnerabile essenza, gesti che ispiravano un giudizio basato sulla cristiana suddivisone categoriale della bontà o della cattiveria. Un uomo, pensò Jacques, è buono o cattivo a seconda dei quotidiani gesti che compie.
Attraverso una tenda rossa, poco più a destra, al sesto piano, un uomo si dimenava contro un mobile. In mano pareva avesse un martello. Jacques ne fu incuriosito poiché la foga di quell’uomo appariva innaturale, sinistra. Si sforzò di mettere a fuoco l’immagine in movimento ma la tenda non permetteva una visuale nitida. Quando smise di battere alzò il martello in aria e si mise a danzare per tutta la stanza come uno sciamano invasato. Jacques abbozzo un sorriso che si spense nel momento in cui quell’uomo aprì la finestra e si mise seduto sul davanzale roteando il martello. Per la prima volta durante le sue osservazioni Jacques si sentì scosso. Si alzò in piedi come se da un’altezza appena diversa potesse rendere più nitida l’immagine. L’uomo col martello rientrò in casa con un balzo atletico e chiuse le imposte. A Jacques parve di aver scorto del sangue sul martello ma era troppo distante e la luce troppo debole per poterne essere certo. Si lasciò cadere sulla sedia mantenendo la stessa espressione di stupore. Pensò ad un abbaglio, lo strano comportamento di quell’uomo aveva sicuramente una spiegazione logica.
In fondo anche quello di Jacques non era proprio un comportamento logico, ne era consapevole, passava intere ore ad osservare la gente che si muoveva dietro alle finestre di quel palazzo. È pur vero che lo faceva esclusivamente per passare il tempo, lui, in fondo, non era lì per guardare, era lì per aspettare. Colei che dalla sua casa era svanita passando dalla porta e percorrendo quell’unica strada che lo divideva dal palazzo di fronte, probabilmente sarebbe tornata ripercorrendo lo stesso tragitto. Da lì doveva tornare e lui l’aspettava, seduto, fumando gli ultimi minuti di ogni stella che quella notte sfidavano nubi oscure e minacciose.
Si sentiva in diritto di entrare in ogni finestra, in ogni fessura che permettesse appena di osservare il movimento delle vite altrui, si sentiva in diritto di entrare in ogni parola detta da quelle persone anche se non poteva sentirle. Jacques attendeva: l’acqua che disseta l’attesa è fatta di un mondo che si muove, si colora, ed è cattivo o buono a seconda dei gesti. Si attende sempre qualcosa, fino a quando non si comprende che della stessa attesa è fatto ciò che si attende.
La luce fioca, attraverso quella tenda rossa, al sesto piano, non rivelava più movimenti. La stanza sembrava ormai vuota da almeno dieci minuti. Jacques provò a spostare lo sguardo altrove, anche se la curiosità lo costringeva a tornare lì dove il tempo pareva tingersi dello stesso colore della tenda. Rosso, di un rosso intenso, quasi porpora.
Un tempo rosso, pensò, deve avere nel presente un accavallarsi del passato. Cercò di ricordarsi se nei giorni scorsi quelle imposte non avessero rivelato dei movimenti. Jacques era convinto che in quella stanza non era stata accesa la luce per settimane, forse per anni. Si alzò in piedi di scatto e prese a camminare avanti e indietro per tutta la stanza cercando di trovare nella penombra la chiave che avrebbe restituito la logica ad un fatto apparentemente inspiegabile.
Erano ormai le ventitre passate.
– Pronto…
– Chi è? Jacques… sei tu? Jacques?
– …
– Chi è?
– Si, sono io, Pierre senti…
– Jacques sai che ore sono? Te ne rendi conto? Ho appena…
– Si, Pierre lo so, lo so ma ascoltami un attimo..
– Sto cercando di lavare quel maledetto cane Jacques, lo capisci…
– Ascoltami Pierre! Ascolta, è urgente! Lì, da te, sì, lì al 22, al sesto piano, scala di sinistra chi ci abita?
– Come al sesto piano scala di sinistra, c’è più di una famiglia. Jacques sei ubriaco, vero?
– Pierre, cazzo! Dimmi… io non ce la faccio più…
Jacques chiuse la comunicazione.
L’enorme cane, pieno di schiuma, era saltato addosso a Pierre. Gli leccava la faccia gioioso e scodinzolante. Pierre faticò per riuscire a divincolarsi e, una volta in piedi, imprecò furioso e lanciò la cornetta sul muro.
– Guenda vieni a vedere immediatamente cosa ha combinato il tuo maledetto cane!
Corse in bagno a togliersi i vestiti bagnati. Pensava ancora Jacques, a quella strana telefonata. Da quando aveva cominciato a parlare di un’immaginaria moglie sparita nel nulla, Pierre aveva assistito al lento e inesorabile crollo psicologico dell’amico. Quelle strane telefonate si ripetevano sempre più spesso, Jacques dimostrava di non essere più capace di vivere nella realtà. Il vuoto, in Jacques, cresceva fino a invadere la sfera della volontà e della salvezza. Quella vita implodeva su se stessa, incapace com’era di reggere il peso della solitudine e delle conseguenze, incapace di reggere gli effetti sempre più deleteri dell’alcool a cui spesso faceva ricorso.
04/06/1985
Rue Michel Rambaud, Lione.
Pierre, guidava mantenendo una velocità bassa, erano da poco passate le 20. Jacques, sul sedile accanto, aveva smesso definitivamente di torturare il tappo della bottiglia. Aprì il finestrino, si portò la bottiglia di whisky alla bocca, fece un grande sorso e gettò il tappo fuori con un gesto veloce e scoordinato. Pierre lo guardò con gli angoli degli occhi.
– Pierre, lascia stare.
– No, lascia stare tu, sono ore che giriamo, Jacques
– Accosta.
– Basta Pierre.
– Accosta, l’ultimo, giuro.
– Basta Pierre, è inutile.
– Accosta ti dico, accosta! Urlò Jacques con tutte le forze che gli erano rimaste.
Pierre accostò accanto ad un uomo stretto in una giacca di pelle e borbottò qualcosa di incomprensibile. Jacques fece fatica a mettere a fuoco quell’uomo e ad articolare quello che la sua mente, da qualche parte, gli suggeriva di chiedere. Abbassò il finestrino.
– Hei, senti… hei… mi senti? Mi senti!
Quell’uomo ignorava qualsiasi cosa. Bucava l’aria, diritto verso la meta.
– Senti! Perché cazzo non rispondi!
– Che vuoi?
– Hai visto una donna vestita con.. jeans.. aveva i jeans…sì…
– Ne ho viste a decine così oggi.
– Aspetta… non ho finito. Pierre faticava per non lasciare andare la testa verso lo schienale. Sebbene continuava a vederlo dietro ad una coltre semitrasparente, notò il tatuaggio sul collo appena sotto l’orecchio sinistro.
– Vuoi fermarti un attimo?
L’uomo affrettò il passo in maniera graduale fino a correre.
– Seguilo, seguilo!
– Jacques, non…
– Seguilo ti dico!
– Vaffanculo Jacques, ora basta! Non lo vedi che è entrato nel parco? Come cazzo…
Jacques aprì la portiera e si lanciò all’inseguimento di quell’uomo. Rami contro la faccia, foglie contro la faccia, l’aria contro la faccia, il gemito dell’erba sotto le scarpe. L’adrenalina lo sospinse per pochi secondi, poi tutto si fece oscuro, rami, foglie, erba, aria, tutto sfumò velocemente.
Prima di cadere sull’erba, nel buio e nel silenzio, vide una mano. Al polso aveva un braccialetto; un rombo, un ottagono, un rombo, un ottagono, tutti d’argento… Con voce fioca, prima di svenire, disse “è Linda”.
(segue qui)