Si, sentii nettamente che mentre compiva quei pochi passi non mi tolse mai gli occhi di dosso, e ancora oggi vedo la sua mano, durante il percorso, spostarsi da un merlo all’altro. Si fermò all’altra estremità, ma meno a lungo, e anche mentre si girava, continuò a fissarmi ostentatamente.
Si girò; e fu tutto.
Se dovessimo leggerli uno di seguito all’altro, sarebbe difficile attribuire “Ritratto di Signora” e “Giro di Vite” allo stesso autore. Eppure Henry James, scrittore americano trapiantato in Europa, è stato capace di saltare da un genere all’altro lasciando, al suo passaggio, dei segni caratteristici indelebili.
Se da un lato lo osserviamo disegnare i tratti di donne in lotta tra la virtù e il peccato, tra il Nuovo Mondo, liberale e puritano, e il Vecchio, malfidato Continente europeo; dall’altro ci mostra, inaspettatamente, il suo lato più oscuro.
Racconti brevi, come “Giro di Vite”, in cui James si diverte a descrivere il male senza darne le forme, giocando sulla paura dell’incerto, del vuoto e tetro buio, in cui il nome del demoniaco non viene mai fatto direttamente, ma solo lasciato intuire.
La storia della giovane istitutrice, affascinata da un uomo che vedrà solo due volte, e decisa a stabilirsi nella solitaria Bly per accudirne i nipoti, ci viene presentata con un vecchio stratagemma: una serata tra amici, un manoscritto, una donna morta vent’anni prima, una storia agghiacciante riesumata.
L’istitutrice, di cui non viene mai fatto il nome, è aiutata dalla signora Grose, l’anziana governante che non ha esattamente l’arguzia dell’abile Watson. Non sorprende quindi che la mente della giovane donna, sola alle prese con dei ragazzini “demonicamente” sospetti, sia metaforicamente esplosa.
La bellezza immacolata e disarmante dei due bambini, Flora e Miles, la affascina e allo stesso tempo sembra inquietarla. Due esseri perfetti, tanto che risulta impossibile credere alla lettera del Collegio che informa dell’espulsione di Miles, per una ragione che non verrà mai chiarita.
D’un tratto un’apparizione. Un uomo dai capelli rossi osserva l’istitutrice dalla torre.
I loro sguardi si incrociano appena il tempo di dare la certezza alla donna che qualcosa di malvagio e soprannaturale si nasconda in quella figura, che scoprirà poi essere il fantasma del vecchio domestico Peter Quint.
Da questo momento, l’istitutrice comincia la sua fanatica e ossessiva rincorsa verso il male.
Scoperta l’esistenza di un altro poltergeist, la precedente bambinaia Miss Jessel, il suo tormento diviene follia accecante, alla disperata ricerca di un legame tra i bambini e il male che tenta di insinuarsi nelle loro menti. A difesa della povera istitutrice, dobbiamo ammettere che neanche la ferrea disciplina di Tata Lucia, avrebbe retto alle malefatte del piccolo Miles (“Quando voglio essere cattivo lo sono sul serio”, afferma davanti ad una ormai giustamente sfinita protagonista).
Miles e Flora sono Demoni o Angeli? Vittime o Carnefici? Neanche nel finale riusciamo ad ottenere una risposta.
Non sorprende che da questo libro siano nate diverse rivisitazioni cinematografiche. La modernità con cui viene descritta l’inquietudine psicologica dell’istitutrice, i luoghi, gli angelici bambini dietro cui si nasconde qualcosa di oscuro (chissà perché poi i bambini richiamano sempre un senso di orrore), sembra creata a pennello per il grande schermo.
A conti fatti, probabilmente, questo racconto non è poi così diverso dagli altri romanzi sentimentali di James. In fondo il messaggio è sempre lo stesso: una volta travolti dal vortice del male, una volta che la nostra virtù viene messa in discussione, non c’è più via d’uscita.