Nessuna cosa al mondo, si legge nel “Siddharta”, ha così occupato i miei pensieri come questo mio Io, questo enigma del mio vivere.
La settimana comincia con Hermann Hesse, premio Nobel per la Letteratura nel 1946, poeta e pittore oltre che scrittore.
La sua produzione, in versi e in prosa, è stata vastissima; ma è il racconto la forma letteraria prediletta, alla quale lo scrittore si è dedicato a lungo e con passione.
Protagonista assoluto è il paesaggio dell’interiorità, che costituisce lo sfondo su cui si dispiegano le storie, la linea di fondo di una scrittura che varia dal quadretto di genere ai racconti realistici, dalle narrazioni dominate dalla magia e dal fascino dell’Estremo Oriente ai ricordi autobiografici. Insieme, questi racconti, testimoniano la personalità oltremodo complessa e affascinante dello scrittore e costituiscono lo specchio fedele di quello che Hesse definiva “l’enigma del mio vivere”.
In tutta la sua opera, con le sue riflessioni, lo scrittore tedesco cerca risposte alle più profonde domande che da sempre attanagliano l’uomo, ma lo fa laicamente, senza ideologismi e con onestà.
La raccolta di Racconti, tradotti da Marina Bistolfi con l’introduzione di Ferruccio Masini, ne contiene ventitré ed è divisa in due parti. La prima copre l’arco di tempo che va dal 1919 al 1935 e comprende racconti come la Lezione interrotta, fortemente autobiografico. La seconda parte, che interessa gli anni dal 1900 al 1909, riporta tra gli altri Il pittore Brahm.
In quest’ultimo racconto Hesse, conoscitore e amante dell’animo umano, scava tra le piaghe di un infelice amore e rappresenta l’esistenza di un artista compromessa dalla passione per una donna. Ma chi è il vero nemico? È questo l’interrogativo. Può davvero essere una persona fuori di noi a distruggerci o siamo noi che spesso ci esponiamo e chiediamo di essere giustiziati?
Il noto pittore Reinhard Brahm, quarantaquattro anni, si innamora della bella e corteggiatissima cantante Lisa. Prima di conoscere la ragazza, Brahm aveva vissuto una vita da eremita, fuori dal mondo. Dipingere era la sua sola passione, il suo unico interesse. Dopo aver conosciuto Lisa, però, l’eremita, non più giovanissimo, si era invaghito con tardiva passione di quella bellezza particolare. Lei aveva circa venticinque anni e, viziata, fredda e altezzosa com’era, seppe valutare l’importanza di quel corteggiatore dal nome famoso, considerato inavvicinabile e quasi apatico. Con tutta l’ambiguità di cui una donna (o un uomo) può esser capace, Lisa si dà e si ritira, conducendo un gioco estenuante e feroce. Reinhard, ormai incapace di vivere, di dipingere, preso dal solo pensiero di quella donna, si scontra con la realtà e le chiede di sposarlo. Di nuovo Lisa riprende il suo gioco, gli risponde in maniera poco chiara ma il pittore è stanco. Abbandona la sua musa e si getta nell’alcol. Nonostante il dolore, Brahm riesce a riprendere i pennelli e dipinge nei pochi momenti di sobrietà. Infine, dopo una giornata passata a bere con rabbia, trascorre una gelida notte di febbraio in aperta campagna, si ammala gravemente e muore solo e senza cure. Era già sottoterra quando, leggendo di lui su un giornale, un suo parente venne a cercarlo. Tra i quadri del lascito vi era uno strano autoritratto dell’ultimo periodo della sua vita. Una testa analizzata a fondo, impietosamente, i lineamenti orrendamente sfigurati di un vecchio bevitore, l’accenno di un ghigno e una incerta tristezza nello sguardo. Per una misteriosa ragione , tuttavia, Brahm aveva tracciato sul quadro finito, senza dubbio frutto di una penosa autoironia, due grandi pennellate rosse incrociate.
Mi viene in mente, a proposito di questo racconto, una frase di Eschilo:
Così disse l’aquila,quando vide il piumaggio/della freccia avvelenata che l’aveva colpita: -Così non per opera d’altri siam presi,ma di piume delle nostre stesse ali.