Dalla nascita del cosmo a “Quando scese la notte della dodicesima era”. Un dialogo fra tre divinità che si trovano a discutere sulla loro natura immortale, sulla natura umana delle loro creazioni, sul dolore, sulla fede e sull’amore in un panorama silenzioso e oscuro, distaccato dal caos mortale, che osservano e giudicano con occhi differenti. Proponendo di nuovo tematiche strettamente sacrali e adattandole ad ogni epoca, Gibran con i suoi versi affronta argomenti, recando dubbi e incertezze sulla natura umana anche nelle menti dei lettori, e, quasi provocando inizialmente, sottopone ad analisi riflessiva la vita dell’uomo dalla sua creazione nella notte dei tempi ad oggi, il tutto reso con maestria dal punto di vista di tre divinità. La prima, scontenta e stanca per aver troppo visto e troppo sopportato la non curanza dell’uomo nei confronti dei suoi creatori e la sua abilità a deturpare i doni che gli furono offerti, pronuncia queste parole rivolgendo lo sguardo verso sud per assaporare “l’odore di cose morte”:
Ma il mio passato è morto di parto
E solo il silenzio visita il suo grembo,
E la sabbia portata dal vento si annida nel suo seno.
(…)
Che gioia c’è in canti ascoltati e riascoltati,
La cui melodia viene fermata dall’orecchio che la riconosce
Prima che il respiro la affidi al vento?
Il secondo dio, con tonalità meno iraconde e meno disilluse ma comunque dedite a convincere il suo interlocutore delle sue parole, insiste sull’orgoglio provato di fronte a creazioni umane che cantano per il suo onore, per la sua lode, e per una gratitudine degna e riconosciuta per una divinità che osserva l’uomo dall’alto e ne ama i difetti e le debolezze con il distacco del creatore immortale:
Far sorgere l’uomo dalle tenebre segrete,
Ma tenere le sue radici aggrappate alla terra;
Dargli sete di vita, e rendere la morte sua coppiera;
Donargli l’amore che cresce col dolore,
Si esalta col desiderio, e aumenta con la nostalgia,
Si dilegua con il primo abbraccio.
Infine il terzo dio, ignorato in principio come il più giovane e il più ingenuo, dal tono meno aggressivo e da argomentazioni meno fertili di dubbi e d’ira, non conduce alcuna contesa ma invita ad aprire gli occhi al mondo in quel momento, allontanandosi dalle domande, dal “suono di una lira antica”:
Fratelli, miei sacri fratelli,
La ragazza ha udito il canto.
E adesso cerca il giovane cantante.
Di fronte all’immagine di un amore vivo, rumoroso e sorridente gli dèi si tramutano in attesa, in un cielo che aspetta e osserva un’estasi non nata da mano divina. Con un tono quasi di rimprovero, la terza divinità dipinge con le sue parole e la sua voce un’immagine di beatitudine mortale, paragonando il continuo indagare ed interrogare dei suoi fratelli ad una “volta senza stelle”.
Concludo con gli ultimi versi di quest’ opera di Gibran per rammentare ancora, ad ogni lettore, che c’è di che sorridere, c’è di che essere grati a noi stessi, e c’è qualcosa per cui amare l’uomo, “un dio in lento elevarsi”.
Sarà meglio per noi, e più saggio,
Cercare un angolo di ombra e dormire nella nostra divinità terrena,
E lasciare che l’amore, umano e fragile, governi il giorno a venire.