Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno.”
Sono sei i capitoli in cui Marcelle Padovani suddivide la sua raccolta di interviste a Giovanni Falcone sul suo lavoro contro la mafia. Una struttura ben studiata, un’architettura che disegna in maniera logica un’organizzazione definita, partendo dalla violenza per arrivare al rapporto con il potere. E Falcone non tralascia nessun particolare, come un maestro che tenta di far comprendere ai suoi studenti una materia complessa, articolata, di cui per anni si è sottovalutata la pericolosità.
Si è sottovalutata, o si è voluta ignorare. Il confine è sottilissimo, e le motivazioni profondamente legate al nostro stesso essere. Si definisce la mafia un cancro, afferma Falcone, o una piovra, ma la mafia non è un oggetto estraneo al nostro corpo, non è una cellula impazzita, è nata dal nostro arrenderci alle facili soluzioni, dalla mancanza di istituzioni capaci di fornire al cittadino uno strumento valido di alternativa al “parassitismo”. La cupola descritta dal Magistrato è inquietante, ma dà un’immagine precisa di una ramificazione ben inserita nella società stessa. Ci sono i pesci piccoli, i capi dei vertici, e norme e regole che devono essere seguite puntigliosamente, con un rigore al limite dell’ossessione, che non si esaurisce mai, ma che muta come un camaleonte nella società che avanza. La gerarchia mafiosa è così precisa da ricordare quella ecclesiastica, e non stupisce, sotto questa prospettiva, che uno dei suoi capi, Michele Greco, fosse soprannominato “Il Papa”.
Giovanni Falcone le regole le ha imparate bene, sa come parlare ad un “uomo d’onore”, si alza in piedi seccato se un pentito lo chiama “Signore”; se offre una sigaretta, sa che il pacchetto deve essere già aperto. Ha imparato ad interpretare i silenzi, a dire solo ciò che deve essere detto e ad aspettare il momento giusto. Ha anche capito la complessità di sentimenti che agitano un pentito, e questo sarà il punto di attacco dei suoi avversari. Un punto di attacco incomprensibile, perché non si è capito quanto questo gesto fosse legato ad una fede incondizionata verso le Istituzioni, la consapevolezza che il ruolo di garante delle leggi gli aveva conferito un potere di cui non era autorizzato ad abusare. Ma qual è la prospettiva della legge davanti alla mafia? Da che parte guarda lo Stato? È difficile individuare un punto di rottura netta tra due poteri così influenti. La mafia, afferma Falcone, non è un fenomeno limitato alla subcultura, ma si espande a macchia d’olio nei meccanismi in cui circola più denaro, ed è allora che sono necessari punti di contatto.
Non basta creare delle leggi di comodo che assecondino il volere pubblico il tempo di dimenticare il ricordo di una strage. Si deve combattere senza sottovalutare, rendendo più forte lo Stato e cambiando allo stesso tempo la cultura della popolazione. Giovanni Falcone si è spesso sentito domandare, Perché lo Stato Italiano non è riuscito a sconfiggere la Mafia?
Per vent’anni, ci spiega, l’Italia è stata governata da un regime fascista in cui ogni dialettica democratica era stata abolita”.
Ha il sapore di un testamento questa raccolta, una lucida e razionale indagine delle ragioni che condurranno il Magistrato alla morte un anno dopo. Sapeva, ed era l’unico a raccontare, per questo non si deve smettere di leggere.