Immagina un po’ cosa ho sognato.
All’apparenza tutto è proprio come da noi.
La terra sotto i piedi, acqua, fuoco, aria,
verticale, orizzontale, triangolo, cerchio,
lato sinistro e destro.
Tempo passabile, paesaggi non male
e parecchie creature dotate di linguaggio.
Però quel linguaggio non è di questa Terra.
Nelle frasi domina l’incondizionale.
I nomi aderiscono strettamente alle cose.
Nulla da aggiungere, togliere, cambiare e spostare.
Il tempo è sempre quello dell’orologio.
Passato e futuro hanno un ambito ristretto.
Per i ricordi, il singolo secondo trascorso,
per le previsioni, un altro secondo
che sta appunto cominciando.
Parole quante è necessario. Mai una di troppo,
e questo vuol dire che non c’è poesia,
né filosofia, e neppure religione.
Là simili trastulli non sono previsti.
Niente che si possa anche solo pensare
o vedere a occhi chiusi.
Se si cerca, è ciò che è già lì accanto.
Se si chiede, è ciò per cui c’è una risposta.
Si stupirebbero molto,
se mai sapessero stupirsi,
che da qualche parte esistono motivi di stupore.
La parola “inquietudine”, da loro considerata oscena,
non oserebbe comparire nel vocabolario.
Il mondo si presenta in modo chiaro
anche nell’oscurità profonda.
Si dà a ciascuno per un prezzo accessibile.
Nessuno esige il resto prima di lasciare la cassa.
Dei sentimenti -la soddisfazione. E nessuna parentesi.
La vita con un punto al piede. E il rombo delle galassie.
Ammetti che nulla di peggio
può capitare al poeta.
E poi nulla di meglio
che svegliarsi in fretta.
Wislawa Szymborska
Un quadro di una realtà irreale, di un tempo atemporale che implode nella mente di esseri dormienti, grandi sognatori in lotta col mondo onirico; questo è ciò che la poetessa Szymborska disegna nella poesia che oggi vi propongo, appartenente alla raccolta “Due punti” dell’artista polacca vincitrice del Premio Nobel per la letteratura nel 1996.
Con un tono alquanto ironico ci descrive un paesaggio apparentemente simile al reale, tranquillo, chiaro “anche nell’oscurità profonda”, in cui siamo costretti a stare seduti, fermi, in silenzio pronunciando soltanto le parole che occorrono e niente di più. L’ironia che la poetessa usa appare come un sollievo, un modo quasi cinico di raccontarci una realtà in cui non vorrebbe vivere e che quindi descrive con distacco sollevata dal non essere in continuo stato di sonno.
Il necessario per il tempo e per lo spazio che la nostra mente crea rende tutto sterile, rende inutile il “troppo”, nega la necessità di un’immaginazione, trattiene gli occhi aperti poiché non occorre chiuderli in assenza di stanchezza. Il poeta diventa immobile, statico e quindi superfluo, assieme ad ogni tipo di parola sperperata per concetti non tangibili, non chiari e non visibili. Non esiste agitazione e non esiste irrequietezza, poiché il tempo è ambiguo ad occhi chiusi: anni interi durati un minuto e istanti stesi con un pennello sottile e lento.
Il poeta non esiste nei suoi sogni, è superfluo e inconsistente il suo mestiere, non ha licenze ed è incatenato al “rombo delle galassie” e alla limpidezza delle domande umane e dei desideri appagati. Nel mondo onirico è un inetto, inerme e impotente, l’unico essere che, fra certezze e risposte dogmatiche, attende il risveglio con ansia per poter richiudere gli occhi stando in piedi con una penna tra le dita.