Io, se volete che vi dica come la penso al riguardo, fondamentalmente invidio le persone come mia suocera. Quelle che vanno per evidenza e priorità. Che sbrigano faccende. Che risolvono la molestia delle giornate tristi con un’alzata di spalle. Che credono che l’anima esisterà pure, ma non per questo bisogna affondarci il naso dentro. Che non prendono così sul serio i propri pensieri, e quindi non stanno continuamente a ripensarli, rifinirli, modificarli, ritrattarli.
Diego De Silva torna a raccontarci delle vicissitudini dell’avvocato Vincenzo Malinconico di “Non avevo capito niente” anche in questo suo lavoro “Mia suocera beve”. La formula, vincente, è la stessa: la napoletanità delle situazioni, la figura dell’avvocato, personaggio inetto, una sorta di Zeno Cosini moderno e più simpatico, capace di dare il meglio di sé sotto pressione; le rocambolesche avventure tra i vicoli partenopei, le battute, le divagazioni sulla vita, sulla giustizia e sull’amore.
Il libro parte proprio dall’amore, o meglio, da una lite con Alessandra, la nuova compagna di Vincenzo; e poi l’esigenza di camminare, perché solo così riesce a sfogarsi e a riflettere; ritrovarsi in un supermercato, incontrare un ingegnere che conosce, Romolo Sesti Orfeo, diventare un ostaggio perché l’ingegnere vuole farsi giustizia della morte del figlio e, per sfortuna di Vincenzo, nel supermercato c’è anche il camorrista autore del delitto, che l’avvocato nella sua mente ribattezza Matrix. Malinconico si ritrova a diventare l’avvocato penalista di un ingegnere distrutto dal dolore e determinato a rendere pubblico il mal funzionamento della giustizia, con tanto di telecamere e battute per riprendere questa sorta di improvvisato processo nel supermercato. Alla fine, mentre la situazione sta degenerando, l’inetto Malinconico, che di penale conosce poco, da sfoggio di sé, conquistando tutti con un’arringa incredibilmente convincente e finendo col diventare una star.
La mia autostima impenna, arrecandomi un delizioso capogiro. Mi sento una tigre. Sono una rivelazione. Una rockstar. Sono Bruce Willis nel primo Die Hard. Sono l’uomo che ci voleva. Ho la situazione in pugno. Mi amo.
In seguito, l’avvicinamento alla ex suocera, stimata da Malinconico per quel suo essere stata una combattente, una dura, schietta e verace, incredibilmente forte; l’unica donna con la quale Vincenzo si confida veramente e, dopo aver saputo dalla figlia che la donna è malata di cancro, decide di farle un regalo: una bottiglia di Jack Daniel’s che l’ex suocera si scola tutta! Ed è proprio grazie alla donna che Vincenzo comincia a riflettere sulla sua situazione e sui suoi sentimenti nei confronti dell’ex moglie.
Vincenzo Malinconico cattura l’attenzione: il filosofo partenopeo dalla partenza rallentata, che sa cosa dire solo dopo che è passato il momento, che si perde nei suoi viaggi mentali, che fantastica sulle persone e sulle situazioni pur sembrando serio e concentrato, è reale e genuino, come le sue parole, scritte, perché in questo modo riesce ad avere la meglio su di loro.
Nella vita vera non posso cancellare, tornare indietro, ripensare a quello che ho detto, correggerlo. Allora scrivo. Per prendermi la rivincita sulla parole. Per raccontare come sarebbe andata se avessi scelto quelle giuste.