Io sono verticale
Ma preferirei essere orizzontale.
Non sono un albero con radici nel suolo
succhiante minerali e amore materno
cosi’ da poter brillare di foglie a ogni marzo,
ne’ sono la belta’ di un’aiuola
ultradipinta che susciti grida di meraviglia,
senza sapere che presto dovro’ perdere i miei petali.
Confronto a me, un albero e’ immortale
e la cima di un fiore, non alta, ma piu’ clamorosa:
dell’uno la lunga vita, dell’altra mi manca l’audacia.
Stasera, all’infinitesimo lume delle stelle,
alberi e fiori hanno sparso i loro freddi profumi.
Ci passo in mezzo ma nessuno di loro ne fa caso.
A volte io penso che mentre dormo
forse assomiglio a loro nel modo piu’ perfetto –
con i miei pensieri andati in nebbia.
Stare sdraiata e’ per me piu’ naturale.
Allora il cielo ed io siamo in aperto colloquio,
e saro’ utile il giorno che resto sdraiata per sempre:
finalmente gli alberi mi toccheranno, i fiori avranno tempo per me.
Al limite tra vita terrena e sogno Sylvia Plath osserva il mondo. Il suo sguardo dolce e il sorriso appena accennato, nelle immagini in bianco e nero che la ritraggono, sono lo specchio di un animo che osserva la vita da un punto lontano, ultraterreno.
Sylvia Plath non è forte e immortale come un albero, né clamorosamente bella come un fiore.
Non ha radici che la tengono salda al terreno, come le altre donne, e i suoi petali non splendono di colori che esplodono in primavera.
La sua anima è quella di un outsider, accompagnata per tutta la vita da quella sensazione di estraneità, che a diciassette anni la porta a scrivere: “Ho paura di crescere. Ho paura di sposarmi. Non voglio ridurmi a cucinare tre pasti al giorno, essere intrappolata nel tran tran quotidiano. Voglio essere libera… (“Letters home”)”.
Perseguitata dall’ansia di vivere, da quel disturbo bipolare curato con un aberrante elettroshock, Sylvia tenta, nella sua poesia, di trovare una via di fuga al male di vivere, al sentimento di inadeguatezza verso la società, verso ruoli che non riesce a vestire.
E in questa poesia, il suo essere verticale rappresenta il distacco dal mondo.
Se fosse orizzontale, come nel sonno e come in un sogno, la linea della sua anima si confonderebbe nel confine con il cielo, in un dialogo continuo con le stelle, e il suo corpo si lascerebbe avvolgere dalle radici degli alberi. Se fosse orizzontale, i suoi pensieri si dissolverebbero nella nebbia, e la sua forma sarebbe quella perfetta della natura.
Ma Sylvia Plath si sente verticale, dritta, mortale e imperfetta. Quasi come il suo corpo fosse un oggetto estraneo, che marca indelebilmente le sue manchevolezze.
E’ un infelice presagio il desiderio di Sylvia Plath di ricercare pace nel sogno, nell’eternità dell’essere orizzontale. A soli trent’anni, dopo aver combattuto diverse volte la depressione, lascerà pane e latte per i figli, e sigillerà porte e finestre con nastro adesivo prima di uccidersi con il gas.
La sua fragilità, la prospettiva da cui osserva il mondo, quasi avesse paura di non esserne all’altezza, sono tratti distintivi di una poesia che non può essere confinata nella sola sfera femminista o della depressione. Somiglia invece più ad un canto leggero, che evoca una dimensione lontana in cui malinconia e sogno si confondono.
Sylvia Plath era orizzontale, nonostante si sentisse verticale.