Nell’anno 1946 Londra è solo la pallida ombra di un’ebbrezza, quella per una vittoria pagata a caro prezzo. Il vincitore, capace di resistere al nazismo rampante, ha le unghia spuntate dal grattare le macerie, una resistenza scoperta, che mostra tutte le sue fibre più intime, tese, e limate dalla fame.
Sulla mente e sul corpo di Juliet Ashton s’infrange la marea di sensazioni ricavate insieme dal successo per la sua carriera letteraria e dal bisogno di riempirsi la pancia. Due necessità apparentemente antagoniste, laddove a volte il bisogno materiale scavalca quello intellettuale, ma che coesistono come frutti di una stessa pianta malata, la guerra appunto.
Il successo è stato guadagnato con la redazione di una serie di articoli umoristici firmati con uno pseudonimo. I soldati in guerra e la popolazione traumatizzata dai bombardamenti hanno trovato nella loro lettura quel conforto che solo una intelligente leggerezza può conferire alla immane pesantezza di un conflitto bellico.
Juliet, come tutto il resto della popolazione inglese, sta risalendo faticosamente la china, sente oscuramente che, ora che la guerra è terminata, quella leggerezza della sua prima opera deve lasciare il posto a qualcosa di diverso, deve, la sua prossima fatica, cominciare a farsi testimonianza, voce che riflette sugli avvenimenti, alla ricerca di un punto di vista, cui restituire il giusto peso.
E l’ispirazione fortunosamente arriva, sotto la forma di un club letterario davvero sui generis, sorto a Guernsey, un’isola del canale della Manica, durante l’occupazione tedesca, la società letteraria “Torta di patate” costituito da pochi semplici abitanti a loro agio più con le sementi o le galline che con Shakespeare o con le sorelle Brontë.
Potrà sembrare banale, ma è tutto, tranne che banale. E Juliet ha la bontà di non riderne, di prendere dannatamente sul serio le storie sottese a quel piccolo, apparentemente futile evento e di volervi rendere omaggio. Storie di gente confinata in un isolamento durato tutta la guerra, dominato da regole ferree dettate dalla capricciosa volubilità dei tedeschi invasori, caratterizzato dalla presenza umana, umanissima di certe figure al limite dell’eroismo, che cercano di ridare un senso a quei valori, che in tempi davvero gravi, e grevi, sostengono il peso di un mondo esangue.
Da queste premesse di dipana un lungo epistolario, intrattenuto dalla protagonista con l’amica, l’editore, gli abitanti dell’isola, che raccontano la nascita e l’evoluzione della società letteraria, di come essa abbia confortato i loro animi durante tutto il periodo dell’occupazione. Un epistolario vergato con toni di humour inglese raffinatissimo, dove le indicazioni più concrete, i dettagli più pratici, le riflessioni sugli amori mancati, i particolari biografici si mischiano con perfetta sintonia alle considerazioni più profonde, sul ruolo salvifico dei libri, sulla paura, la solitudine, le vite, a volte esemplari a volte meno, degli scrittori del passato.
Il libro è inglese fin nel midollo, un concentrato di “inglesità” perfettamente esibite: non una tonalità sopra le righe, nessuna affettazione, nemmeno una traccia di snobismo intellettuale, ma passione per i libri, autentico trasporto umano, misurato da una prosa vivace ed ironica, quella sottile ironia, che è già stata figliata da Jane Austen, che è approdata alla satira con Harry Fielding e Thomas Hardy, laddove tragedia e commedia vengono temperate da una comprensione profonda dell’animo umano e delle sue debolezze.