“Figlia mia, è da molto tempo che voglio raccontarti una storia. Ma non è come quelle che ti piaceva ascoltare…. Non è nemmeno divertente. È soltanto vera, ed è la mia storia. Eppure non riesco a trovare le parole per raccontartela, allora prendo i ferri e lavoro a maglia. Ogni punto è una lettera, e in ogni giro scrivo: “Ti voglio bene”. Scrivo sempre la stessa frase in ogni mio lavoro. Poi, come una preghiera o un augurio, la rivolgo a te. Con la speranza, cara figlia mia, che la storia che sto componendo riesca ad arrivarti, insieme con tutto il mio amore.”
E’ il 2012 quando la scrittrice Ann Hood pubblica il suo romanzo “Il club dei ricordi perduti”, un romanzo in parte autobiografico. E’ la storia dolorosa e sofferente di una donna, Mary, che ha perso sua figlia Stella di cinque anni per un attacco acuto di meningite. La morte della piccola scatena una serie di effetti devastanti e per la donna e per il suo matrimonio. Chiusa sempre di più in se stessa Mary affronta il suo lutto nell’inerzia e nella disperazione fino a quando la madre le consiglia di cominciare un corso di maglia, di lavorare su un progetto che le prenda tempo, cuore e mente. Dopo qualche iniziale ritrosia, Mary si iscrive al corso e scopre ben presto quanto il lavorare con la lana, l’intrecciare, il creare qualcosa sia per lei lenitivo. Concentrata sul suo nuovo lavoro e spronata dalla voglia di portare a termine quello che sta creando, quasi fosse un obiettivo da raggiungere, la donna rinasce piano piano. Incontra al corso donne e uomini che nascondono qualcosa, una perdita, un dolore e quel corso diventa un motivo di incontro, una sorta di centro di recupero per chi ha provato un dolore così forte da risentirne ancora gli effetti di un trauma. Il sentire le altre storie da modo a Mary di capire che non è sola, che può andare avanti e soprattutto che può condividere il suo dolore con gli altri. In parte questo è quanto successo alla scrittrice che, persa la piccola figlia, si è dedicata al lavoro a maglia ritrovando la pace del lavoro a maglia diventa quindi una metafora della vita in quanto arte del ricrearsi una identità.
C’è qualcosa di speciale nel lavoro a maglia: ti devi concentrare, ma non
troppo; le tue mani continuano a muoversi, ma i pensieri si calmano
Spontaneità e tecnica, un insolito modo di ricostruirsi costruendo, appunto, un qualcosa di nuovo.
Il libro è pervaso da questa metafora esistenziale: ricominciare da capo è possibile, basta riprendere il filo. Mary decide di ricominciare a vivere pian piano, lasciando i pensieri scorrere sull’intreccio dei fili, intrecciandoli con calma e dando loro un posto in quella che era la sua nuova realtà. Afferra il dolore ” con i ferri” e gli da un posto preciso, lo confonde e lo perde con una trama più grande: lavorare a maglia è un insolita filosofia zen, che attraverso una manualità precisa e ritmica, insegna a Mary a vivere di nuovo.