Se tu venissi in autunno,
Io scaccerei l’estate,
Un po’ con un sorriso ed un po’ con dispetto,
Come scaccia una mosca la massaia.
Se fra un anno potessi rivederti,
Farei dei mesi altrettanti gomitoli,
Da riporre in cassetti separati,
Per timore che i numeri si fondano.
Fosse l’attesa soltanto di secoli,
Li conterei sulla mano,
Sottraendo fin quando le dita mi cadessero
Nella Terra di Van Diemen.
Fossi certa che dopo questa vita
La tua e la mia venissero,
Io questa getterei come una buccia
E prenderei l’eternità.
Ora ignoro l’ampiezza
Del tempo che intercorre a separarci,
E mi tortura come un’ape fantasma
Che non vuole mostrare il pungiglione.
Emily Dickinson
L’attesa consuma.
Emily Dickinson è stata una poetessa straordinaria, una donna di una sensibilità non comune, la cui grandezza è da ricercare proprio nella scelta di vivere alienata da tutto ciò che c’era al di là della porta della sua stanza. “Se tu venissi in autunno” è uno dei suoi più famosi componimenti, un testo che con parole semplici coniuga sentimenti diversi, meditando sulla nozione della relatività del tempo. Il risultato è una poesia di grandissima intensità emotiva.
L’autunno è la stagione della riflessione. È il tempo del ritorno, del riposo. L’autunno in questi versi diventa, dunque, metafora di un ritorno indefinito, del momento in cui la frenesia dell’estate lascia il posto alla quiete.
La protagonista del testo vorrebbe poter gestire un tempo, vorrebbe poter avere una data, una certezza. Anche se fosse un periodo infinitamente lungo, anche se si trattasse della vita intera.
Ne scaturisce una nozione del tempo che non è quantificabile. Il tempo vero vive all’interno di noi stessi, non è scandito dalle lancette di un orologio, né dai giorni, né dai mesi, né dai “secoli”.
L’incertezza infatti è la pena più grande nell’attesa. Il tempo diventa insormontabile proprio perché non è quantificabile. L’oggetto dell’attesa, fosse esso una persona o qualsiasi altra cosa, appare irraggiungibile e lontanissimo proprio in virtù del fatto che non si sa quando giungerà.
Il paragone che la Dickinson instaura tra lo stato d’animo dell’attesa e l’ape che ronza senza mostrare il pungiglione, rende esattamente il senso di ciò che si prova. Infatti il fastidio e nel contempo la paura di essere punti tormenta più della puntura stessa.
La certezza, anche amara e non gradita è sempre preferibile al dubbio, all’indeterminatezza. Questo vale per tutte le circostanze, ma ancor più nell’amore. Esso vive di misere speranze e si corrode nell’attesa, nel tempo senza durata.
Meglio, pertanto, vivere nella consapevolezza di una brutta verità che nell’insicurezza di una attesa eterna.