La musica riveste le pareti della stanza, rimbalza contro gli oggetti, esce dalla finestra aperta dove danza al vento una tenda azzurra.
È settembre inoltrato, la città ha assorbito le sfumature arancio di fine estate, persino i suoni sembrano più pacati, nella luce morbida del pomeriggio. Poco più in là il mare, dono di bellezza eterna, custode di sguardi, pensieri, sogni, malinconie e gioie; del buono e cattivo di questa terra.
Sono nella mia stanza, da qui sento il mare anche senza vederlo o udirlo: riconoscerei la sua presenza dalla luce, dall’aria trasparente, dal bianco abbacinante che invade d’estate le vetrate, dall’odore che imprime alla città.
Ho provato ad allontanarmi: come spesso accade nella vita, ho cercato, in seguito a un dolore, di inventarmi un’altra me in un luogo differente; ho provato ad ignorare il canto di sirena di questa città che mi richiamava ostinatamente a sé. Per un po’ ha funzionato, il cordone materno sembrava reciso.
Ma non si può fuggire da sé stessi, ed io non esisto che qui. Quando l’ho capito sono tornata.
Sono tornata perché quello che cercavo ciecamente chissà dove, era sempre stato qui, nella placenta delle mie strade e delle radici da cui volevo prescindere. Per stare bene con me stessa ora non mi serve che questo: la musica, una stanza, il vento, ed il mare poco lontano.
Ora di quei ricordi che mi ferivano ho fatto una dolce culla per il presente, le fondamenta da cui innalzarmi a costruire la mia esistenza. Adesso è come se, per sapere dove vado, debba ricordarmi da dove vengo.
Ho ripreso a scrivere; ho fatto pace col mare e Lui mi ha riconciliato con quello che amo veramente, e con me stessa.
Quest’oggi sono preda di strani sentimenti ed è da qualche ora, ormai, che siedo qui e cerco di catturarli tra la carta e l’inchiostro.
Sapevo che tornare avrebbe significato, prima o poi, riportare alla coscienza la ragione del mio allontanamento. Questa mattina mi sono trovata al risveglio questo pensiero già addosso, aggrovigliato ai pensieri senza una precisa ragione, compresso nel petto come ad impedirmi di respirare. Mi sono spaventata, ho pianto, non sapendo bene nemmeno di cosa.
Poi ho capito. Dovevo lasciarlo andare, dovevo liberare quel dolore e farlo attraverso le mie mani; fissarne il ricordo in qualcosa di tangibile e lanciarlo nel mondo, fuori da me.
Così eccomi che cerco questa istantanea di impressioni e di ricordi, la via d’accesso per poter prima legittimare e poi spogliare il mio dolore; lasciarlo lì, in un angolo del foglio o in fondo a un rigo.
Scrivo di noi.
Due anime che si sono fuse una mattina, proprio sul mare: una goccia soltanto, paragonata alla sua vastità e alla vita intera, ma cristallizzata, impressa per sempre nella tela del mondo; lì, in un angolino tutto nostro, irrilevante al primo sguardo, ma centrale a ben guardare.
Chiudo gli occhi, per pochi istanti, e scivolano da me in fila i ricordi, trascinandosi dietro tutti i sentimenti in cui sono avvolti.
E ti rivedo.
Rivedo quella sera, un valzer di emozioni condensate nella prima stretta di mano, in quella carezza sulle nocche bianche: l’intera anima compressa e nascosta, fino a quel momento, rovesciata sulla tovaglia bianco candido. Una poesia scritta senza inchiostro, a quel tavolo dove abbiamo consumato, tra morbide parole, menu di pesce e Falanghina. Ho bevuto quella sera, ma non ero ubriaca di vino. Lo ero di un’ emozione sconosciuta che faceva tremare l’anima, mai prima come quella volta, né dopo.
Mi hai chiesto di restare, senza neanche accorgermene ho detto sì.
Sono rimasta con te, mentre il mare dondolava quella notte solo nostra, cullandoci e annullando il mondo che avevamo lasciato fuori.
Il mattino dopo la spiaggia, le nostre mani unite, il silenzio, e quel cappuccino mescolato ai sorrisi, mandato giù assieme ad una strana, velata malinconia. Te la leggevo negli occhi e nei gesti, anche se ho fatto finta di niente. Non ti ho mai chiesto perché: forse conoscevo già la risposta, ma non volevo sentirtela dire, non allora, non lì.
Il mare si è portato via la tua mano, ha mischiato le nostre vite, separato la mia rotta dalla tua.
Doveva finire, lo so, l’ho sempre saputo.
Quello che non sapevo è che avrei portato per sempre sulla pelle le tue orme, che niente più sarebbe stato uguale, che il futuro mi avrebbe trovato per sempre col tuo bagaglio sulla porta.
È stato difficile ritrovare l’armonia, scoprire la combinazione giusta per accedere ad una nuova serenità, accettare di convivere col tuo ricordo ingombrante.
Sono arrivati i giorni ostili, in cui mi feriva il sole, la musica, il solo pensare, ricordare, parlare. Avrei voluto ferirti, avere lo stesso potere che avevi tu di farmi male.
Non l’avevo, e il solo modo per fermarti è stato il silenzio. Non ti ho più cercato, non ti ho scritto, ho smesso di parlare di te e di scriverne.
Mi sono chiusa nel silenzio e nella penombra, col sonno per disinfettante e il lavoro e gli amici come scudo.
Son così trascorsi i giorni, le settimane, i mesi, e alla fine è arrivato il giorno in cui ho voltato la tua pagina e sono passata oltre, uscendo dalla prigione del rifiuto.
Ho superato, ma non dimenticato.
Sì, mio vecchio Amore, proprio così: ti conservo ancora in me, in una remota, segreta, piccola tasca.
Tempo fa mi hai detto che ripensi spesso a quella sera e alla colazione sulla spiaggia, che è un ricordo bellissimo e dolce che custodisci gelosamente; che sei stato davvero bene, forse persino felice.
Ho risposto con un sorriso, non c’era bisogno di dire nient’altro.
La nostalgia di te talvolta bussa ancora alla mia porta, ma è diventata più dolce: sto imparando piano a non averne paura, a mettere un sorriso al posto delle lacrime e proseguire la mia vita.
Eppure ogni tanto penso a come sarebbe stato. Guardo le stagioni riversarsi su quei luoghi, succedersi in strati di tempo che si accumulano al di sopra di quel giorno, e mi immagino come saremmo, oggi.
Come sarebbero le mie mani, i miei capelli, le mie parole accanto alle tue, come saremmo? Cosa dipingerei io, cosa scriverei? Di cosa parlerebbe questo vento nostalgico che sventola i panni stesi verso le nuvole?
Ci saresti tu, di là, a prepararmi il caffè del pomeriggio, ed io tra le ultime chiamate del tuo telefono? Ci sarebbero le orme dei tuoi passi sul lastricato della mia città?
Come sarebbe stato comporsi vicendevolmente la vita?
Prendersi in giro, litigare, andare al cinema, poi magari vedersi invecchiare?
Te lo sei chiesto mai anche tu, almeno una volta, anche per un solo istante?
Riapro gli occhi, poi febbrilmente muovo le dita, sporco i fogli, li riempio, li saturo: depositari a partire da questo istante della parte obliqua del mio cuore.
Mi alzo, vado alla finestra e guardo il mare brillare sotto l’onda prepotente del sole. Osservo la vita muoversi sinuosa oltre il mio balcone, inspiro l’aria, e ascolto questa musica che esce dalle casse dello stereo e se ne va suonando nel vento lieve di settembre.
Un pezzo molto nostalgico, s’intitola J’y suis jamais allé. Non ci sono mai stato.
Mi piace, ha la mia stessa malinconia: la malinconia insieme bella e tremenda delle cose perdute, del tempo, dell’anima.
D’un tratto penso una cosa, come un mistero finalmente svelato.
Penso che sia stato meglio così. Per la prima volta, solo per averne scritto, sento la pace dopo l’assedio di un pensiero che mi ha tolto troppo a lungo la serenità, la gioia, la voglia di fare; che ha continuato la sua marcia anche dopo che sembrava passato. Adesso mi scopro a pensare che è andata come doveva andare, che quell’Amore, così fugace, così intenso, sia rimasto per sempre fisso e immutabile in un attimo del mondo,
nello splendore di quell’incantesimo in cui l’abbiamo vissuto e lasciato.
Non conoscerà la consunzione del tempo, la noia, l’attracco un po’ triste sulle coste dell’abitudine. Questo pensiero mi conforta, mi assolve in qualche modo dalla mia pena.
La triste fine è stata forse un finale perfetto, il lasciapassare per i ricordi più belli.
Quando in futuro penseremo ancora l’una all’altro, lo so, saranno i momenti in cui entreremo in contatto, senza saperlo. Saranno gli attimi misteriosi come questo, quelli in cui ci guarderemo intorno e ci sembrerà che la città, il mare, la gente, stiano raccontando da qualche parte la nostra storia.
Finché un giorno, chissà, anche il dolore non sarà che un dolce pensiero.
Ci resterà di noi un ricordo da cui far cadere puntualmente un sorriso.