Il conflitto è da sempre fonte di fascinazione. Inutile nascondersi dietro ad un dito, siamo tutti dei guardoni. Le liti ci attraggono, i diverbi ci ringalluzziscono e proviamo un’infinita soddisfazione se da una qualsiasi contesa sentiamo di uscire vincitori. Sono disposta all’uso del singolare se qualcuno si sente offeso dalla mia generalizzazione, sappiate però che lo faccio solo pro forma. Io dunque, se assisto ad una lite ad un incrocio, tra automobilisti in assetto di guerra, rallento e soffoco a stento l’istinto di sporgermi dal finestrino e chiedere “ Che è successo?” Scrupoli morali derivanti dall’educazione inculcatami.
Forse questo è il fascino della verde Irlanda e di ciò che da essa è prodotto. Le grandi bevute di San Patrizio, folletti e pentole d’oro, bombe e morti. In questo clima culturale spicca la famiglia O’Connor. Che cosa i genitori dessero da mangiare alla famosa figlia Sinead, cantante di enorme successo ed al fratello, lo scrittore Joseph, non è dato sapere ma di certo l’espressione di alcuni politicanti secondo cui l’arte non funge da sostentamento non trova rispondenza in questa famiglia.
Joseph O’Connor, dublinese doc, sbarca in Italia con la raccolta di racconti “I veri credenti”. Credetemi eccezionale. Perdonate la recensione nella recensione, non sono di certo Shakespeare, ma non vorrei “Il rappresentante” fosse l’unico libro attraverso cui entrare in contatto con questo autore, di qui la mia breve premessa. “Il rappresentante” dicevo, è la storia di Billy Sweeney, o meglio è la storia raccontataci in una lunga lettera confessione dal suddetto. Quarantanovenne rappresentante di antenne paraboliche Bill è un uomo consumato dall’odio e dal dolore. La sua missiva è indirizzata alla figlia, Maeve, immobile in un letto d’ospedale, in coma dopo essere stata selvaggiamente aggredita da quattro delinquenti nel corso di una rapina. Tre dei vili criminali vengono presi ma il quarto, Donald Quinn, resta in libertà. In Billy, ex alcolizzato che per primo aveva minato dalle fondamenta il suo nucleo familiare, monta un furore cieco. Tutte le notti compie una sorta di ronda, gira in auto alla ricerca di Quinn, lo trova, lo rapisce, lo chiude in una voliera nel suo giardino. Il criminale è in gabbia, potrebbe ucciderlo subito ma non lo fa. Tra i due si instaura un assurdo meccanismo, vittima e carnefice danzano scambiandosi i ruoli più volte. Di questo Billy scrive a sua figlia, racconto dell’orrore e lettera d’amore insieme.
I protagonisti di questo romanzo sembrerebbero due, sono molteplici invece, l’assenza aleggia pregnante. L’ex moglie ormai morta, la figlia immobile e muta eppure così presente e l’Irlanda, terra di Santi, cattolici devoti ed ubriaconi. Il libro non stanca, lo si legge a tratti con il fiato sospeso, a volte addirittura si sorride. Definito un thriller psicologico è in fondo molto di più. Un libro sui sentimenti e gli affetti, sul dolore, sulla terra natia, sulla disperazione. Manca qualcosa però, leggendolo, seppure tutto d’un fiato, si ha la netta sensazione che O’Connor a tratti abbia voluto strafare, che ci siano delle lacune narrative, che alle volte scada in eccessi melodrammatici e che invece alle volte scordi i sentimenti per rimarcare le sfumature da thriller. Un ottimo progetto su carta insomma, una discreta realizzazione, peccato avrebbe potuto essere straordinario.
Non sono sostenitrice di una insita bontà umana, la mia fiducia nel buonsenso delle persone si arresta sistematicamente di fronte al bombardamento mediatico di cronaca nera che normalmente ci vede vittime. Una domanda resta addosso al lettore mentre legge e per giorni una volta giunto al finale. Cosa saresti capace di fare se qualcuno facesse del male ad un tuo caro? Fino a che punto saresti in grado di spingerti?
Se il colpevole fosse in una gabbia nel tuo giardino tu saresti capace di fermarti?