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Tv che fagocita gli scrittori

Raccontare di un fenomeno culturale implica, al giorno d’oggi, filtrarlo attraverso un qualche canale. Sebbene la comunicazione passi per il mondo del web, per i giornali, per gli spazi pubblici, e per molti altri luoghi fisici e non, la televisione è il primo riferimento che viene in mente. Non c’è da sorprendersi, in effetti. La televisione è un gigante della comunicazione, così come la intendiamo oggi, e al suo cospetto passa qualsiasi contenuto. La madre televisione ospita nel suo salotto personalità diversissime, dallo sconosciuto al trash all’artista, vittima e carnefice insieme, indistintamente. Spesso contemporaneamente. Il format che impone, sebbene si presti a variazioni, rispetta alcune regole di base: tutto sottocontrollo, audience sott’occhio, sponsor alla mano (anche in senso letterale!), tempi stretti, strettissimi. È la legge della diretta TV.
Una caterva infinita di scrittori, emergenti e non, hanno prestato il loro volto – a volte inconsapevolmente, spesso no – a programmi televisivi di dubbia fattura per far conoscere il proprio ultimo lavoro, e per mostrare se stessi, dare un’istantanea del proprio volto che risulti credibile abbastanza da restare impressa per un tempo relativamente lungo negli spettatori. Il meccanismo che è andato configurandosi è tale che i pochi che vogliano intervenire nella scatola con contenuti reali e pregni di significato e che non abbiano la notorietà come unico pensiero, sono invischiati pericolosamente: sarà loro impedito di esprimere anche solo una bozza del proprio pensiero, figurarsi l’intera trama del romanzo; d’altra parte, si sa, i tempi stringono, la reclame incombe, e poi non esistono scappatoie dinanzi a tutte quelle protesi (le telecamere), a quel senso di disagio che non può essere scacciato in alcun modo. E gli spettatori, che fanno gli spettatori? Restano incollati allo schermo, non ne possono fare a meno; e si badi bene, non si tratta di un pubblico necessariamente ignorante e incapace di una ricognizione mentale, spesso ciascun telespettatore è a conoscenza dei sotterfugi mediatici che vengono stipulati ogni giorno, eppure decide di andare oltre, di ignorare il campanello d’allarme che suona ininterrottamente.
La televisione accoglie, allora, e lo fa senza limitazioni, ma – come un mostro che mangia la sua preda per poi sputarla in uno stato pietoso, così essa spazza via tutti quelli che ha illuso fino all’istante precedente.
Se da una parte accoglie, dall’altra la televisione viene accolta, in un gioco che ricorda quello delle Matrioske. Qualcuno che ha prestato le proprie pagine, padrone di casa benevolo – apparentemente – è Diego de Silva, scrittore italiano di origini napoletane, autore di diversi romanzi dallo stile inconfondibile e altresì “socialmente provocatorio”. La chiarezza e l’esaustività con cui è stato in grado di smascherare tutti questi meccanismi all’interno di Mia suocera beve è uno dei motivi per cui non ho ancora trovato un motivo per preferire ‘altro’ alla letteratura.
«Ormai non c’è gesto, parola o accadimento anche minuscolo di cui non andiamo automaticamente a cercare riscontro nei televisori: come se la realtà si fosse spostata lì dentro, e il presente andasse in differita.»
La perizia con cui De Silva ha tracciato un quadro perfettamente credibile di questi aspetti ha del prodigioso. Leggiamo ancora:
«Ormai dovremmo essere tutti d’accordo sul fatto che il reality show, per funzionare, deve suscitare riprovazione estetica. Essendo un documentario sulla miseria umana girato a fini non scientifici, l osi guarda per sentirsi superiori. Per cui è ovvio che in un formato di quel tipo un’emissione corporea diventa kryptonite pura. La gente non ha nessun problema a sciropparsi qualche polemica più o meno indignata riguardo, p. es., all’umiliazione televisiva del corpo, però sempre all0interno di uno schema estetico blindato (le veline con le tette di fuori e i culi al vento, oh che svilimento del corpo femminile): col cazzo che è disposta a sopportare la compassione che le provoca la vista di un poveraccio inzaccherato della sua urina. Il reality non ammette pietas. Al massimo, commozione programmata. »

Non esistono filosofie del linguaggio che tengano di fronte a un libro.