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“Il timoroso delle ombre” che fondò l’Impero. Augusto: dagli auspici alla propaganda.

“Augusto ancora oggi puoi incontrarlo nelle vie di Roma, nelle mura, negli archi, nelle statue. E anche nell’ormai smorto spirito imperiale che alla città aveva conferito un regime politico, quello del ventennio mussoliniano, in cui si era data al popolo l’illusione di poter rivivere le sepolte glorie di Caput Mundi.”

È l’incipit di Augusto di Antonio Spinosa, la ricca e dettagliata biografia dedicata a colui che pose fine all’età repubblicana e diede inizio all’età imperiale, nota come età augustea o età dell’oro, tanto celebrata e rimasta impressa nella memoria da aver incarnato le ambizioni degli uomini che a lui s’ispirarono nella conquista del potere e di quella “vita inimitabile”.

Lo storico Arnaldo Momigliano, ricorda lo stesso Spinosa, nel 1939 paragonò il colpo di stato di Mussolini a quello di Augusto e la marcia su Roma dell’uno a quella dell’altro. Il paragone calzava certamente ma doveva limitarsi, oltre che all’uso della violenza e dell’illegalità, a pochi elementi, di facciata peraltro, – come i littori, i fasci, la condanna al celibato, gl’incentivi alle famiglie numerose e i disastrosi slanci urbanistici del duce che nulla ebbero in comune con le grandi opere dell’imperatore, sostenuto dall’abile urbanista Agrippa, – poiché diversi furono i punti di partenza e di arrivo dei due personaggi che, oltre all’appellativo di dux, avevano ben poco da spartire. Il stesso Foro Mussolini, a differenza del monumentale Foro di Augusto, non era che una battuta con cui gli italiani indicavano ironicamente l’ennesimo buco alla cintura che il duce costrinse loro a fare durante il periodo bellico.

Per celebrare il bimillenario della morte dell’imperatore (19 agosto 14. a.C.) è stata allestita la mostra dal titolo Avgvsto (Roma, presso le Scuderie del Quirinale, dal 18 ottobre 2013 al 9 febbraio 2014) un percorso tra circa duecento opere – statue, gruppi marmorei, bassorilievi e cammei – per ricostruire la vita personale e politica dell’imperatore e l’affermarsi di una nuova cultura letteraria ed artistica destinata ad influenzare i secoli successivi.

Ottaviano nacque il 23 settembre 63 a.C. da Azia, nipote di Cesare in quanto figlia della sorella Giulia, e Caio Ottavio, senatore di Velletri. Seppure di origini non proprio nobili,  la sua nascita avvenne sotto i migliori auspici: dal fulmine che distrusse le mura di Velletri, segno che avrebbe avuto un potere assoluto; allo stesso Caio Ottavio che sognò un cerchio di fuoco, cioè il Sole, uscire dall’utero della moglie; alla leggenda di Azia che si recò ad offrire un sacrificio al tempio di Apollo e, addormentatasi sulla lettiga, sentì insinuarsi dentro di sé un serpente, come era successo ad Olimpiade, la madre di Alessandro Magno, a sottolineare il legame con le origini troiane di Roma e della gens Iulia. Il troiano Enea era nato da Ascanio, cioè Iulo, e Afrodite, cioè Venere, e questa origine divina fu ricostruita, celebrata e propagandata nell’Eneide da Virgilio che insieme ad Orazio, autore tra gli altri,  del Carmen seaculare, una preghiera al Sole che aveva assegnato ai romani il compito di regnare, fu introdotto da Mecenate e assorbito nell’ambiente augusteo,  tra i maggiori rappresentati della poesia augustea cioè di quel periodo che va dalla morte di Cesare alla morte di Augusto o, meglio, dalla morte di Cicerone (43 a.C.) alla morte di Ovidio (17 d.C.). Un periodo denso di capolavori e di grandi protagonisti tra cui ricordiamo Properzio, Tibullo e Tito Livio.  

“Ottaviano appariva esile, quasi diafano, di salute malferma. (…) Ma fermo aveva lo sguardo, e splendenti erano gli occhi azzurri. La fronte era alta, biondi i capelli e un po’ arruffati. La sua statura era al di sotto della media, e per recuperare in parte lo svantaggio portava alte calzature.” così lo descrive Antonio Spinosa. Ma come riuscì un ragazzo di tali fattezze, “iste qui umbras timet”, timoroso delle ombre, come lo definì Cicerone, ad imporsi e realizzare quello che neppure Cesare aveva realizzato?

Innamorato dei libri e della lingua greca, a soli 12 anni pronunciò la laudatio funebris per la nonna Giulia esattamente come aveva fatto Cesare vent’anni prima per la zia Giulia, sottolineando, le origini divine della sua gens. A 16 anni Cesare lo nominò prefetto, gli concesse i dona militaria e lo fece partecipare ai suoi trionfi. Privo di eredi maschi diretti vide in lui molto più di un pronipote. Il suo futuro venne predetto dall’indovino Teogene che nei dati di nascita lesse un grande destino: sarebbe stato l’artefice di un secolo d’oro.

Nel 44 a.C. Cesare fu nominato dittatore a vita e 15 marzo dello stesso anno morì sotto i colpi inferti dai congiurati. Solo cinque giorni dopo il testamento assegnava tre quarti del suo patrimonio a Ottaviano. E mentre Marco Antonio pronunciava la laudatio funebris che esaltava la natura divina dell’estinto, considerato padre della patria, dio tra gli dei, un monumento veniva dedicato al “parenti optime merito”, al padre benemerito, cosa che fece apparire Bruto e Cassio oltre che sicari, anche parricidi.  Caio Giulio Cesare Ottaviano, invece,“guardava ad un impero che si chiamasse repubblica. Nella sua mente già prendevano forma la freddezza e l’astuzia ammantate di atarassia.” 

Nella sua marcia su Roma fu accompagnato dagli amici e consiglieri Mecenate, Agrippa e Rufo. Ad accoglierlo gli ennesimi auspici: “un cerchio a mo’ d’arcobaleno che avvolse il sole” non appena varcò la soglia della città; un fulmine che s’abbatteva sul monumento alla memoria di Giulia, sorella di Cesare, e un sogno dello stesso Ottaviano, in cui, convocato in Campidoglio insieme ad altri figli di senatori, veniva indicato da Giove come colui che avrebbe posto fine alle guerre civili.

Ma Ottaviano non era solo sostenuto da auspici e propaganda: era freddo, scaltro, calcolatore. Animato da desiderio di vendetta, umiliava Antonio con ogni mezzo, lo dichiarava hostis publicus, nemico della patria, marciava nuovamente su Roma alla testa di un esercito privato, cominciava a barare al tavolo della storia, per parafrasare Spinosa, e a “contrapporre alla connaturata audacia del leale giocatore, l’astuzia e l’avvedutezza del baro.”

Nel 43 a.C. il suo colpo di stato si compì mentre nel cielo volteggiavano dodici avvoltoi, auspicio che riportava alla memoria quello di Romolo al momento della fondazione dell’Urbe. Da quel momento in poi Ottaviano bruciò le tappe: si fece nominare console con dieci anni in anticipo sull’età stabilita e ottenne i fasci concessi alla dignità di capo dello stato. Usò la propaganda per svelare la ferocia di Antonio, svuotò il Senato dei suoi poteri, nelle liste di proscrizione  dei nemici della Repubblica fece inserire il nome di Cicerone che pure, attraverso le Filippiche, gli era servito per offuscare la figura di Antonio, ma lasciò che fosse quest’ultimo ad occuparsene. Una escalation di spietatezza, arguzia, raffinata politica che spazzò via dalla storia i parricidi e la Repubblica stessa con un plateale gesto – la testa di Bruto fatta rotolare ai piedi della statua di Cesare come atto di espiazione – e la vittoria definitiva su Antonio ad Azio nel 31 a.C.  “In quella battaglia Ottaviano aveva combattuto per la salvezza del mondo, Antonio per la rovina. Così scrivevano i poeti d’impegno civile, gli annalisti, gli storici che attorniavano il vincitore per esaltarne le gesta e tramandare ai posteri una sua immagine di magnificenza e di pace.”  dice Spinosa. E ancora: “Quei poeti, quegli annalisti, quegli storici appartenevano ad una nutrita corte di adulatori, nutrita perché numerosa, ma anche perché ben stipendiata.”

Ottaviano diede grande importanza alla letteratura, al teatro e agli spettacoli che celebravano e propagandavano la grandezza di Roma, per tenere sotto scacco il popolo. Sempre desideroso di nuove sfide, quasi a competere con se stesso, superò i predecessori. Princeps per il senato,  dux e poi imperator per i militari, divus per il popolo, nel 27 assume il cognomen  di Augustus attribuito fino ad allora solo a monumenti sacri, consacrati dagli auspici. Ribattezzò il mese di sextilius come Augustus, il mese dei suoi tre trionfi del 31, così come Cesare aveva ribattezzato quintilius come Iulius, essendo nato in quel mese. Respinse il titolo di Romulus come sinonimo di fondatore, perché nulla facesse pensare che s’era fatto re ma creò di fatto una monarchia mascherandola da repubblica, fondò l’Impero e impose la  Pax Augusta al mondo celebrandola in quella straordinaria opera che è l’Ara Pacis.

La sua immagine è consegnata alla storia da grandi opere architettoniche, archi di trionfo, acquedotti e da celebri statue come l’Augusto di Prima Porta, ricalcato sul canone di perfezione dell’età classica del Doriforo di Policleto che lo rappresenta come arringatore con la corazza (potere militare) e con la toga (potere politico);  l’Augusto in veste di Pontefice Massimo che sembra incarnare quella definizione di princeps salubris che tanto gli era gradita e, per finire, dalle pagine delle Res Gestae,  il suo testamento politico in cui “un traditore dell’amicizia, un ingordo di potere, un perfido corruttore di coscienze, un cinico falsificatore della storia a proprio vantaggio” non poteva che presentarsi come il vendicatore degli assassini del padre e un liberatore della Repubblica. 

Augusto “c’era riuscito a dispetto di tutti, con ogni arma, soprattutto con la simulazione.” a cambiare Roma, la storia e a farle sue.