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Un classico è per sempre

“Si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati; ma costituiscono una ricchezza non minore per chi si riserba la fortuna di leggerli per la prima volta nelle condizioni migliori per gustarli.”

      Italo Calvino

I classici non muoiono mai. È un dato di fatto.

Non esistono nuovi orizzonti, nuove scoperte né tantomeno nuovi occhi per guardare che tengano, se ad attenderci c’è un classico.

Non siamo in grado di rinunciare ad essi, e siamo destinati a voltarci indietro, anche solo per una volta, come attratti da una forza potente ma impercettibile.

I classici sono una specie di certezza: siamo portati ad attribuire un valore quasi eterno a quei libri che anche dopo secoli sembrano parlare del presente meglio di chi quel presente lo vive, meglio di come lo faremmo noi. Ci aiutano a vedere meglio il percorso di evoluzione – spesso di involuzione, purtroppo – a cui siamo giunti rispetto a quando sono stati scritti: ci dicono cosa è cambiato e perché.

È come se fossero la risposta a domande che non abbiamo mai posto, ma che si muovevano dentro di noi da tempo.

Sono sempre nuovi, moderni, quasi intoccabili, dall’alto della tradizione di cui fanno parte.

Leggere un classico è come concedersi un momento di raccoglimento, di pausa dal trambusto della vita.

 

Potrei continuare all’infinito ad elencare i pregi di una letteratura senza tempo né spazio, senza mai esaurire gli argomenti.

Quando penso ai miei classici, a quelli della mia libreria personale, penso ad alcuni nomi che resteranno indimenticabili nella mia memoria di lettrice: i tormenti di Cime tempestose hanno fatto palpitare i giorni di un’estate solitaria e desolata, scossa soltanto dal vento delle paludi di Wuthering Heights; I misteri di Parigi hanno accompagnato le mie prime rievocazioni di luoghi mai visti e di periodi storici mai vissuti; le rinunce di Elizabeth di Orgoglio e pregiudizio hanno forgiato il mio carattere femminile ad un’ironia che non era ancora sbocciata; il trattamento subito da Ester ne La lettera scarlatta mi ha fatto palpitare di rabbia per le ingiustizie narrate; Lolita mi ha dato uno sguardo sul tipo di letteratura che non sopporterò mai; con Calvino e Se una notte d’inverno un viaggiatore ho compreso il potere dei libri e quanto può diventare labile il confine tra realtà e immaginazione; La noia mi ha chiarito la natura di un malessere con cui sentivo un certo legame da tanto.

Ma un classico in particolare ha illuminato la mia immagine della letteratura, indelebilmente: Il grande Gatsby, di Francis Scott Fitzgerald. Non solo per la storia misteriosa di Jay Gastby, non solo per come la racconta Nick Carraway, non solo per il sogno d’amore per Daisy, per quella baia che li divide, non solo per il suo essere così immerso in un’epoca d’oro, quella degli anni Venti in America. C’è altro. C’è un’atmosfera un po’ evanescente, che si percepisce nella lettura, ma che non è mai definitiva né può essere mai catturata. Il Grande Gatsby mi ha raccontato di uno stato d’animo in cui perennemente gli animi romantici – come il mio – vivono: quello delle illusioni, dei sogni grandissimi e per questo irrealizzabili. Fitzgerald mi ha raccontato delle promesse mai mantenute di un uomo solo, di se stesso, e i compromessi vani per cercare di raggiungerle. La luce verde che Gatsby cerca di afferrare è la luce di chiunque abbia aperto quel libro, anche la mia.

Vicina alla conclusione, di fronte a queste parole,

 “Mentre sedevo là a riflettere sul vecchio mondo sconosciuto, pensai alla meraviglia di Gatsby la prima volta che individuò la luce verde sul molo di Daisy. Aveva fatto molta strada per arrivare a questo prato azzurro, e il suo sogno gli doveva essere sembrato così vicino da non potergli più sfuggire. Non sapeva che l’aveva già alle spalle, da qualche parte nella vasta oscurità oltre la città, dove i campi bui si stendevano nella notte.”

 ho pensato che mai mi sarebbe capitato di dimenticarle, che mai avrei messo di affidarmi alla luce verde di cui Gatsby e quel libro conserveranno per sempre il ricordo. Che mai avrei smesso di leggere classici.