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Caro Matteo,

mi permetterò di darti del tu, anche se non ci conosciamo, concedimi questa piccola trasgressione.

Quando per la prima volta ho pensato a chi rivolgere la mia lettera, lo devo ammettere, l’idea era un’altra.

Da poco Beppe Grillo aveva dato sfogo alla sua rabbia contro il “punto G da salotto” di Federica Salsi, la sfuriata – non la prima- sottilmente si muoveva in quella nebulosa linea grigia che separa comicità e maschilismo.

A me, considerami pure una rabbiosa femminista, questo modo di scherzare che butta l’amo per nascondere un nemico molto più pericoloso, fa proprio saltare i nervi.

Le parole, e tu che scrivi lo puoi testimoniare meglio di me, possono strisciare come serpenti e insinuarsi nelle menti senza che neanche uno se ne accorga.

Ma la scorsa sera, mentre ero intenta a mettere nero su bianco la mia irritazione, un’altra notizia mi ha colpito.

Un ragazzino di 15 anni, Andrea, si impicca. Deriso a scuola e su Facebook perché additato come omosessuale, viene chiamato “il ragazzo con i pantaloni rosa”.

Non voglio entrare nel merito della vita di Andrea, che fosse realmente omosessuale o meno, ammesso che un ragazzino di 15 anni possa avere la completa consapevolezza della propria sessualità, non credo abbia importanza.

Ma la derisione, su una base così sciocca, la trovo terrorizzante.

Continuava a tornarmi alla mente l’immagine di una folla di studenti dal sorriso beffardo, le pacche sulle spalle tra compagni, lo sguardo fisso di chi la sa lunga sulla vita, e ha la sicurezza che nessuna incertezza potrà mai far crollare le pareti della casa sicura in cui ci si è rifugiati.

Ho pensato a quanto sia destabilizzante e decisiva l’adolescenza, e improvvisamente mi è venuto in mente il tuo libro, “Generations of Love”.

Quando l’ho letto, nonostante la chiave ironica con cui affronti la ricerca di un’identità personale, mi ha colpito come descrivessi la vita di un omosessuale in una continua oscillazione su un confine di colpa che separa “la libertà individuale e il rispetto degli altri”.

Mi sono chiesta, e lo chiedo anche a te, fin dove arriva il diritto a vivere come si vuole, e dove comincia il rispetto per gli altri?

Chi ne stabilisce i limiti, e fino a che punto le parole che ci bombardano, possono contribuire nell’espressione della nostra identità?

Quasi affermare “Si, questo sono Io”, dovesse  necessariamente infliggere sofferenza, e la felicità divenisse un’arma a doppio taglio.

Io vengo da un piccolo paese del Sud, se sei gay, qui, ti sputano nel finestrino della macchina o ti chiamano “finocchio”. Nei migliore dei casi si finge “tolleranza”,  parola oscura, un’altra.

Ecco, voglio essere sincera, io, in quel confine che descrivi, davvero ci trovo molte somiglianze con ciò che provo quando mi trovo davanti a certe situazioni.

Perché anche una donna si muove spesso lungo il confine della colpa.

È la colpa che si nasconde dietro le parole, la colpa che ti segue come un terribile mostro ogni volta che tenti di cercare un senso fuori dagli schemi.

Uscire dalle aspettative, sconvolgere le carte in tavola, è un’arma pericolosissima che se non sai maneggiare può scoppiarti in mano.

Non si può lasciare che sia Wanna Marchi a dirci quanto essere magri, o un politico a dirci chi amare.

La letteratura può aiutare la rivoluzione delle idee, e io ci credo tantissimo, perché non ha senso fare fiaccolate, se non c’è dietro una riflessione. Una riflessione che non si fermi all’ondata di emozione del momento.

Se lo scopo è guadagnare il diritto alla propria identità,verrebbe da domandarsi, perché allora le lotte femministe di Se non Ora Quando e quelle dell’Arcigay non si uniscono?

Se il tuo libro è stato d’aiuto per qualcuno, perché non partire da qui e proporre un dibattito più vivo?

 

Con stima,

Monica