Alessandro Garigliano, di Misterbianco, scrive sui blog minima&moralia e Nazione Indiana. Nel 2013 ha esordito con il romanzo Mia moglie e io (LiberAria), segnalato al Premio Calvino. Da poco edito è Mia figlia, don Chisciotte (NNE).
Ciao, Alessandro. Eccoci ancora una volta a parlare di un tuo libro. Mia figlia, don Chisciotte è un libro difficile da definire. Ci stiamo abituando a considerare mobili (se non inutili) gli steccati fra generi narrativi, ma qui la contaminazione (felice contaminazione) avviene tra il saggio e il romanzo. Viene da chiedersi allora quale sia la genesi di questo libro: avevi in mente di scrivere un saggio e poi le cose sono andate diversamente? Avevi in mente fin dall’inizio di scrivere quello che poi è diventato Mia figlia, don Chisciotte?
Devo dire che non ho mai avuto dubbi. Leggevo e rileggevo il libro di Cervantes e ne spulciavo le monografie, fino a quando non ho avuto un’intuizione: tutti i padri sono Sancio Panza! Io sono stato sempre innamorato dello scudiero, un personaggio che dubita di tutto e crede a tutto, capace di illudersi e di essere scettico con la medesima forza. Ma, solo quando ho immaginato che le avventure dei padri potessero rispecchiarsi in quelle dello scudiero, mi sono innamorato perdutamente di Sancio e ho concepito il romanzo. È vero che all’inizio sembra difficile definire il mio testo, ma in fondo basta ripercorrere la storia del romanzo, dalla sua fondazione – avvenuta con il Don Chisciotte della Mancia – alla sua gloriosa progressione, per capire che il romanzo, nella sua storia, ha sempre cannibalizzato generi diversi e scavalcato steccati.
Il tuo libro – almeno come l’ho letto io – racconta (anche) la paternità, in quella fase della vita di una bimba in cui tutto è esplorazione e scoperta; anche la storia di don Chisciotte e Sancio Panza è vista come una storia di padri e figli. Anche questo, era già nella tua mente quando hai iniziato a scrivere o ti ci sei imbattuto strada facendo?
No, ripeto, il tema della paternità è connaturato nel testo. Se da un lato mi sono reso conto che i padri non possono che essere Sancio Panza, dall’altro ho capito che i figli sono donchisciotteschi. E a quel punto ho iniziato con grande passione ricerche sulle figure paterne e sul mondo dei bimbi. Mi sono andato a rileggere i miti: da Crono a Edipo, da Elettra a Enea ed Ettore e così via. Mi sono ricordato che, tutte le volte che in opere di ogni ambito culturale ritrovavo la relazione tra padre e figlio, io mi commuovevo. E alla fine, ciò che mi è piaciuto di più è stato narrare anche cosa significhi oggi essere padre. Chiedersi come reagire all’evaporazione del padre autoritario, quali eredità tramandare: e soprattutto innescare un dialogo profondo tra padre e figlia in cortocircuito con i due maestosi eroi della Mancia.
In qualche modo questo secondo libro si riannoda a Mia moglie e io. Racconta anche il precariato, il tentativo di non naufragare nell’incertezza del futuro e di restare fedeli a se stessi, alle proprie aspirazioni. Cosa ci racconterà ancora Alessandro Garigliano?
In effetti, esiste un filo rosso che collega i miei due libri. Sia in Mia moglie e io che in quest’ultimo, il precariato trascende la dimensione sociale e rappresenta un’intera esistenza. Io, almeno per ora, non sono in grado di dare risposte, per me, così come il senso del viaggio è viaggiare, il senso della ricerca è ricercare: e il senso della narrazione è narrare. Il futuro non riesco a coniugarlo neanche come tempo verbale. Però non voglio avere nemmeno la presunzione di sapere come sarà il futuro di chi ancora quella dimensione temporale deve conoscerla: non sono e non sarò mai un ladro di tempo. Detto questo, mi pare ovvio che io non sappia, e non possa sapere, cosa ci racconterà in futuro Alessandro Garigliano.